Il tema dei dialogatori non è solo caldo. E’ bollente. Ho letto con molta attenzione tutti i commenti arrivati sinora sul post Il dialogatore nel face to face fundraising: storia di ordinaria ipocrisia. E questa volta a segnalarlo è Repubblica.it e su Chi guadagna a provvigioni è un fundraiser. O no… (?), sia qui che su altre reti. Quel che emerge è che quella dei dialogatori sia solo la punta dell’iceberg. Sotto vi è molto di più. Vi è un’annosa questione che porta con sé tutte le contraddizioni tipiche di un settore da cui si pretende molto ma che forse ancora non è sufficientemente maturo per porsi al di fuori di logiche buoniste (nel senso buono del termine). Vi sono professioni che scalpitano per emergere e che altrove hanno identità ben precise, quando al nostro interno fatichiamo ancora a pronunciarle correttamente, figuriamoci al percepirle come tali. Vi sono potenzialità produttive e di impiego che davvero possono fare la differenza in un Paese fortemente sociale e solidale come l’Italia ma che, purtroppo, non sono investite dell’attenzione che meritano non solo dal primo e secondo settore, ma anche, paradossalmente, da noi che nel terzo settore ci lavoriamo.

Ma si può parlare davvero di mancata maturità del nonprofit? o magari ci va bene così e c’è altro? Io me lo chiedo e giro la domanda a voi.

Ho sempre lavorato in ONP italiane che operano sul territorio. Sarò anche stata fortunata, ma ho sempre incontrato serietà. Però so bene che il nostro settore non è un’isola felice. Questo perché è costituita da uomini e gli uomini sbagliano. Ancor di più quando antepongono gli obiettivi di bilancio al benessere che rappresentano. Ma i princìpi del nonprofit sono quelli che ho sposato e che mi fanno amare il mio lavoro. E la ricchezza delle nuove professioni emergenti rendono vitale un settore dal sangue caldo e dal volto umano.

Ho pensato a questo post per spazzare via alcuni luoghi comuni e per porre alcuni punti fermi emersi nel dibattito. Parto da questi ultimi:

  1. fundraiser e dialogatore sono due professioni distinte con un comune denominatore, il fundraising;
  2. i dialogatori non sono volontari: la confusione da parte del donatore è purtroppo verità;
  3. il face to face è una tecnica efficace e accettata. Ciò che non è accettato è il tipo di approccio: invasivo e a ogni costo;
  4. le ONG più note che adottano il sistema del F2F adottano un codice di condotta del dialogatore che preserva il donatore da atteggiamenti scorretti e invadenti;
  5. il guadagno a percentuale è bandito dal codice etico dei fundraiser e quindi da questi ultimi rifiutato per principio;
  6. troppo precari e troppo demotivanti sono i rapporti di lavoro che legano i dialogatori (e non solo) al Terzo Settore. Il fatto che sia pratica comune anche nel profit è magra consolazione e non conforta in rapporto ai princìpi di eticità e solidarietà che il nonprofit avoca a sé.

Veniamo, così, ai princìpi e ai valori:

  1. etica e solidarietà appunto;
  2. credibilità,
  3. reputazione,
  4. trasparenza,
  5. reciprocità
  6. advocacy.

Molto volentieri sposo l’idea di alcuni colleghi di pensare a un dialogo vis à vis. Magari al Festival o magari in seno all’Assif. Ma qui, chi scrive lo fa come professionista singola e non in rappresentanza di un organo rappresentativo. La nostra associazione sono certa non mancherà di discuterne. Di questo, posso farmi garante.

Letteratura on line sul tema. Vi invito a leggere altre disussioni aperte su questi aspetti:

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