Insomma: noi fundraiser siamo spesso in corsa. Tra numeri da raggiungere, campagne da lanciare, contenuti da scrivere e urgenze da gestire, il rischio è quello di confondere la pressione con la tensione. Due cose molto diverse. La prima è sterile, logora, spesso controproducente. La seconda, invece, è quella scintilla che tiene viva l’attenzione. È quella voglia di sapere cosa succede dopo. È il motore della curiosità e del coinvolgimento.

Seth Godin, in occasione del suo intervento al Festival del Fundraising, ha parlato proprio di questo. E lo ha fatto con la sua solita lucidità e il suo stile asciutto e diretto, offrendo una lettura che, per chi fa il mio mestiere, è tanto semplice quanto potente. L’ho ascoltato con attenzione durante una sessione riservata a un piccolo gruppo di fundraiser.

Un privilegio, sebbene con mio grande rammarico solo a distanza, ma anche un momento che ha generato riflessioni profonde. Molte delle cose che ha detto mi sono note e le ho ripetute spesso in questi anni, ma sentirle formulate da una persona che apprezzo e leggo con slancio, mi ha fatto bene e confermato che la direzione presa è giusta, così come le convinzioni a cui do voce e che ben conosci se leggi queste pagine e fai il mio mestiere.

Ho fermato alcuni punti e te li presento qui con l’auspicio provochino una riflessione.

La tensione non è pressione

Se fai fatica a mantenere la tensione con il tuo pubblico – esorta Godin – forse stai forzando la mano.

È un invito a guardarci allo specchio. Quando spingiamo, quando inseguiamo il “clic”, quando facciamo leva sull’urgenza o sull’insistenza, rischiamo di rompere la relazione. La tensione vera non si impone, si costruisce.

Pensiamo a una serie tv che ci tiene incollati – continua Godin – è la voglia di scoprire cosa succede dopo che ci fa restare.

Lo stesso vale per il fundraising. Se il donatore sente che sta partecipando a qualcosa che evolve, che ha senso, che ha direzione, allora resta. E partecipa. Continuamente.

Essere il centro, non il venditore

Il punto non è vendere, ma costruire qualcosa a cui valga la pena partecipare.

“Chi sei al centro di? Siamo al centro di una cerchia, di una comunità, di un movimento? Oppure stiamo solo inseguendo numeri, budget, visibilità?, chiede Godin.

L’autore ci esorta a smetterla di viverci come “marketer diretti” che cercano di piazzare qualcosa.

Costruire relazioni significative significa posizionarsi come facilitatori, come punti di riferimento, come connessioni tra mondi. Non è questione di quantità, ma di qualità del legame. Non raccogliamo fondi: muoviamo persone.

Piccoli gruppi, grandi cambiamenti. Perseverare è la chiave

A un certo punto del suo intervento ha mostrato un video: un ragazzo che balla da solo durante un festival. All’inizio lo guardano con diffidenza, poi si unisce una seconda persona, poi una terza. E da lì, a poco a poco, altri si aggregano. La svolta non è quando arriva il secondo. È quando arriva il terzo. E in quel momento scatta la magia…

Cosa significa? Significa semplicemente che non bisogna scoraggiarsi: non si inizia con mille donatori. Si inizia con coloro che cominciano a crederci e, solitamente, a farlo sono in pochi. E da lì, si costruisce. È quello il momento in cui il gesto individuale si trasforma in fenomeno collettivo.

Ecco, nel fundraising è spesso così. I primi sostenitori sono quelli che ci scelgono “prima” degli altri. Quelli che vedono prima, credono prima, rischiano prima.

Il nostro compito è accompagnarli, dar loro modo di sentirsi parte. Far sì che restino abbastanza a lungo da diventare testimoni. E da lì, costruire fiducia.

Misurare ciò che conta (davvero)

Altro punto su cui Godin ha insistito: stiamo misurando le cose giuste o solo quelle facili?

L’open rate delle email è un numero utile, certo. Ma che cosa ci racconta davvero? Se un giorno salti l’invio e nessuno lo nota, forse hai un problema più grande del tasso di clic.

Misurare il valore, la relazione, la partecipazione reale è più difficile. Ma è lì che si gioca la partita.

Godin ci confida di aver appeso al muro, da giovane, le lettere di rifiuto ricevute quando cercava lavoro. Non per masochismo. Ma perché quegli “zero” gli servivano come monito, come stimolo, come motivazione. Noi possiamo fare lo stesso: prendere atto dei silenzi, delle non-risposte, dei vuoti. Non per colpevolizzarci. Ma per migliorarci.

Una mucca viola che ha cambiato la mia traiettoria

La mucca viola non è solo un libro importante. Per me è stato un momento di illuminazione determinante nel mio cammino professionale.

L’ho letto nell’estate del 2020, in un momento per tutti noi molto particolare. Tornata dalle ferie, qualcosa si è acceso. Quelle pagine mi hanno ispirata profondamente, al punto che, nel giro di cinque giorni e cinque notti, ho scritto di getto quello che sarebbe diventato Raccolta fondi, il mio terzo libro e il primo pubblicato con la mia sigla editoriale. Un flusso continuo, intenso, ispirato. Un’esplosione creativa che non si è più fermata.

È stato un momento di lucidità assoluta, un punto di svolta. Devo molto a quel piccolo libro che ti obbliga a guardarti dentro e a decidere che cosa vuoi davvero essere nel mondo.

Io, in quella mucca viola, mi sono riflessa.

Forse è un po’ presuntuoso da parte mia, ma è ciò che sento. È ciò che voglio essere: qualcosa che si distingue, non per vanità, ma per contribuire davvero a fare la differenza in questo piccolo, grande mondo.

Connettere, non chiedere

Ecco il punto.

Non siamo qui per chiedere. Siamo qui per connettere. Per creare tensione buona. Per costruire legami autentici. Per portare avanti una visione.

Il fundraising è questo: scelta e relazione, non solo risultato.

E se riusciamo a farlo con coerenza e con cuore, forse quella mucca viola che balla da sola non resterà sola a lungo.

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