La maturità della CSR sta via via raggiungendo risultati importanti anche nel Belpaese. Riuscire a combinare massimizzazione dei profitti e attenzione ai valori sociali – sia all’interno che verso la comunità – sembra un gioco da equilibristi, in particolare in momenti di difficoltà evidenti come quelli che, purtroppo, stiamo ancora vivendo. In questo contesto, ben conosciamo il ruolo che il nonprofit ha nelle scelte di responsabilità sociale di una for profit. Cose già dette e sapute? Certo. Ma facciamo un passo oltre. Perché tralasciando aspetti quali l’etica (scontata, mi vien da dire) e la coscienza (considerazione da avvalorare ancora oggi come ieri?) l’alleanza tra il secondo e il terzo settore ha valore di discriminante nel welfare in divenire e in questo può, a ragione, ricoprire un ruolo da protagonista.
Vale quindi la pena interrogarsi sulle modalità in cui la relazione tra profit e nonprofit può rinnovarsi. Nella mia esperienza, nata dal confronto con i miei interlocutori, emergono alcune considerazioni che ti riporto qui e su cui mi piacerebbe un confronto.
Il modus classico e meno vincolante che lega un’azienda a un’organizzazione è senza dubbio un contributo economico o in kind in cambio di un grazie e di visibilità. Ma c’è altro. Molto altro. L’abilità del professionista sta nel tirare fuori il plus. Nel comprendere qual è o quale potrebbe essere l’elemento che fa la differenza e che rende la possibile partnership diversa da qualsiasi altra. Un prodotto appetibile (perché no?) e misurabile, perfettamente in linea con gli obiettivi di tutti gli attori in gioco.
Un nuovo modo di intendere la relazione: si parte da qui. Reputazione, attenzione al destinatario, qualità dell’offerta, rendicontazione: sono tutti termini sempre più familiari e che non appartengono più a uno o all’altro settore in modo distinto. L’impresa tradizionalmente intesa, quella per intenderci esposta più sopra e tendente al solo profitto, è destinata a spegnersi. Un consumatore sempre più consapevole chiede molto altro. Un’impresa, profit o nonprofit che sia, di seconda generazione, capace di generare fiducia e valore tiene conto e deve saper gestire tutte queste variabili se vuole fare la differenza. Presa nel suo insieme, la strategia negoziale win-win non è più sufficiente: va fatto un passo oltre e la dualità tipica di questo approccio va sostituita con una strategia win-win-win: un “patto a tre” in cui a concorrere e vincere non sono solo impresa ed ente ma anche pubblico, destinatario del servizio, donatore e così via.
Un nuovo punto di vista: quello del consumatore, del donatore, del destinatario del servizio e, in modo allargato, della comunità. Forse ricorderai: nel gennaio 2013, su queste pagine si era parlato di sussidiarietà solidale (GAEZ0113). Secondo questo principio, agli attori stato, impresa e nonprofit si deve accompagnare necessariamente una quarta figura, quella di comunità elementare (o individuo) a cui i servizi prodotti sono in parte destinati. A sua volta, questo nuovo attore interagisce con i tre precedenti in un’ottica di servizio e consumo. Qui, il cerchio (o tetraedro) si chiude, in una logica di interscambio continuo e di mutualità tra le diverse aree, senza che vi sia, di fatto, dipendenza o sudditanza di uno rispetto a un altro. Allo stesso modo:
in un nuovo modo di intendere la CSR, la comunità diventa elemento discriminante da cui non si può prescindere: un bacino (passivo) da cui attingere informazioni, in parte, ma in particolare un’area vibrante (e attiva) a cui chiedere di rendersi propositiva in un’ottica di produzione di bene comune e condiviso.
Nello scrivere queste riflessioni, rileggo quanto Sebastiano Renna scrisse sul blog a giugno 2012, per la precisione al punto 13 delle sue 14 tesi per andare “oltre la CSR”. Considerazioni mai tanto attuali. Nelle mie parole, forse un po’ di banalità ma il ragionamento quadra. Rileggiamo:
Va ribaltata la tradizionale visione che in questi ultimi decenni ha fatto scaturire una concezione di CSR preoccupata esclusivamente di trovare forme di conciliazione tra esigenze di profitto ed esigenze di contenimento delle ripercusioni sociali. La Società va finalmente vista come un luogo di accumulazione di conoscenze assolutamente imprescindibili per un successo di lungo periodo dei progetti di business. L’azienda sostenibile è dunque un’azienda che progetta con gli stakeholder, che assegna loro dignità di interlocutori competenti – ai quali dischiude la “scatola nera” della propria governance strategica – e che opera secondo l’approccio shared risk, shared reward (condivisione del rischio e dei profitti). La visione di Schumpeter non è poi così azzardata.
Di un nuovo modo di fare impresa e di intendere l’impresa responsabile parla anche Rossella Sobrero nel suo nuovo blog “CSR e dintorni” (che ti invito a seguire se il tema ti sta a cuore). La Sobrero ci introduce un concetto, quello di B Corp (o benefit corporation). Interessante e da approfondire qui.
Insomma, l’attenzione a un nuovo modo di intendere la responsabilità sociale d’impresa è, come scrivevo più sopra, via via maggiore e va sempre più in questa direzione. La sfida è capire come integrare e sfruttare al meglio i tanti stimoli che il mercato profit offre al nonprofit. E viceversa, naturalmente.
Qualche idea a tal proposito?
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