Qualche giorno fa, ho parlato di fundraising a una platea di una trentina di amministrativi di organizzazione nonprofit. L’esperienza è stata piacevolmente complessa. Dinanzi a me, persone intelligenti abituate a pensare ai numeri e poco propense a darsi prospettive di lungo periodo dai costi certi e dai ricavi incerti.

Il coinvolgimento è stato crescente. Dopo tre ore di chiacchierata

(fermatemi perché quando comincio a parlare di fundraising non la smetto più!), il clima era diverso. Molto diverso. Non so se ho abbattuto il muro di diffidenza ma qualcosa è successo in quell’aula. Un partecipante mi ha lasciata informandomi che gli era finalmente chiaro quale fosse il ruolo del fundraising e, in particolare, quale dovesse essere il rapporto tra la sua funzione e quella del fundraiser. Un punto, a mio modo di vedere, cruciale: siamo così abituati a parlare del nostro lavoro che abbiamo finito con il perdere di vista, per certi versi, le altre funzioni con le quali ci incrociamo e, soprattutto, non ci è chiaro come queste vedano, vivano e interagiscano con la nostra. E questa, per esperienza vissuta, è tutt’altro che una sfumatura.

Comprendere di far parte di un sistema complesso che si muove all’interno di un processo altrettanto complesso è il primo passo.

Il rapporto con le altre funzioni è imprescindibile perché nello svolgimento del nostro lavoro abbiamo bisogno di alleati che ci aiutino a raggiungere gli obiettivi e con i quali costruire un contesto nel quale è piacevole lavorare.

So bene quanta aspettativa ruoti intorno alla figura del fundraiser. Ringrazio a questo proposito un collega che ha portato alla mia attenzione un articolo di Marco Crescenzi su ilfattoquotidiano.it che chiarisce perfettamente quest’attesa. Crescenzi, nell’incipit del suo post, si chiede:

Per diventare fundraiser bisogna essere dei maghi o dei manager?

Io ho le idee molto chiare a questo proposito:

Non sono i fundraiser a essere dei maghi ma è il lavoro del fundraiser ad avere qualcosa di magico. La capacità del fundraiser sta nel costruire proposte di valore che abbiano un senso e siano concrete. Che stiano in piedi finanziariamente parlando e portino effettivamente i cambiamenti che ci si propone di portare. E sta qui, penso, la magia: nel cambiamento e nel valore che il fundraiser contribuisce a portare. Siamo un mezzo per un impegno più grande. Siamo fortunati.

Un fundraiser non si improvvisa.

C’è un grande bisogno di fare fundraising ma fundraising vero. Quello che pensa, pianifica, organizza, attende, raccoglie, alimenta. Quello improvvisato, quello del “tutto e subito”, lo lasciamo a chi non ha voglia di prenderci sul serio. Faticheremo forse sempre un po’ a far accettare attività che non diano ritorni certi, immediati e immediatamente quantificabili, questo è indubbio, ma se da oggi 30 responsabili amministrativi di altrettante organizzazioni hanno le idee più chiare e accetteranno di lavorare al fianco del fundraiser per portare a buon fine gli obiettivi sociali dell’organizzazione, be’… io sono contenta.

Professione fundraiser coverSono pronta a parlarne, una volta di più, in occasione della presentazione del mio libro al Salone della CSR e dell’Innovazione Sociale (Università Bocconi), Spazio Isola Scirocco, domani, 6 ottobre alle quattro del pomeriggio. Con me, Giangi Milesi, presidente del Cesvi.

Ti aspetto!

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