iStock_000003908491SmallL’arte del fundraising è cosa ben difficile.

Ad attività certe (forse…), corrispondono ritorni incerti (questo sempre).

Quanti sono i dubbi che assalgono il fundraiser nella scelta di percorrere una determinata strada? E quante volte ci siamo ritrovati a ipotizzare scenari possibili? Queste e altre le domande che è opportuno farsi per non cadere nell’azzardo. Lo è sia che ci si appresti a pensare a una nuova campagna, sia che si pensi a un follow up su un focus target, sia – laddove possibile – che si pensi a un’espansione di un test precedente.

Con buona pace di ROI e redemption, il lavoro di un fundraiser è spesso costellato da dubbi e opportunità: tra la voglia di sperimentare e la coperta corta; tra il desiderio di rischiare e il rischio di vanificare una parte delle donazioni (eventualità che sappiamo essere malamente digeribile da parte del board in caso di fallimento…).

Prevedere, per quanto possibile, è un aiuto incredibile e aiuta a prevenire il rischio ed è un buon esercizio mentale sempre e comunque.

Ma qual è la questione sulla quale è difficile dare una risposta che sia sempre valida e che fa entrare in crisi le piccole e medie organizzazioni nonprofit in modo particolare? Eccola:

quante volte è possibile sollecitare alla donazione uno stesso donatore durante un anno?

A chi non è mai successo di porsi questa domanda? E qual è stata la risposta? Sì, perché il più delle volte ci si concentra sul come chiedere, su quanto chiedere, sul perché chiedere, ma sul quante volte chiedere, si glissa. Quasi fosse un tabù.

Non c’è una risposta giusta o sbagliata.

Molto dipende dal grado di maturità (in termini di marketing, intendo dire) dell’ONP o, ancor meglio e al pari di una persona, dal tipo di personalità. Ma se c’è una cosa che ricordo bene fin da quando sedevo sui banchi di scuola del fundraising:

il donatore, se crede nell’organizzazione a cui dona, dimentica di aver donato. Se può, e se sollecitato, dona con slancio una seconda volta. E una terza. E così via.

Il donatore è vivo e vitale. La scelta migliore che un fundraiser può fare è quella di lasciare che sia il donatore a scegliere che tipo di donatore vuole essere. Per scoprire qual è il tipo di rapporto che vuole avere con l’organizzazione, va messo nella condizione di scegliere. Per farlo, l’unico modo – indovina un po’(!?) – è chiedere! A maggior ragione se abbiamo da offrire, oltre a una causa che vale, dei progetti che valgono altrettanto.

Un azzardo? Affatto. La differenza sta nel dove collochiamo il donatore su un’ipotetica linea del dono, alla fine di un processo o al suo esordio (vedi schema):

  • se dono significa atto finale di un impegno solidale e il donatore è posizionato al suo estremo, l’appello annuale in sé è dovuto e può bastare;
  • se dono significa corresponsabilizzazione sulla quale innescare il processo di partecipazione e il donatore si pone al fianco dell’organizzazione nel ruolo di partner, tutto assume prospettive e spessore diversi e anche chiedere diventa più semplice.

Ipotetica Linea del Dono EZ0314 Elena ZanellaTutto parte da qui e, come sopra, non c’è una risposta giusta e una sbagliata. E’ solo questione di personalità e di quale tipo di organizzazione vuoi essere. Come fundraiser, io non ho dubbi. E tu?

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