Concludo il mio viaggio a Forlì e il resocondo degli interventi al Convegno di apertura dell’XI edizione del Master in Fundraising dell’Università di Bologna, con una donna che ci ha lasciati (letteralmente parlando) con il naso in sù, fisso sulle slides che ha proposte a supporto del suo intervento: Sarah Holloway, della Columbia University.

Nel suo ripercorrere le peculiarità delle nostre sorelle d’Oltreoceano, è sempre più evidente come le problematiche siano più familiari di quel che si pensi. Per certi versi – fatti gli opportuni distinguo, in particolare per ciò che concerne temi quali investimento e ruoli occupati da Pubblico e Privato -, lo scenario presentato dalla Holloway è quasi consolante. Insomma, tutto il mondo è Paese. E il nonprofit non fa eccezioni naturalmente.

In particolare, sono tre gli aspetti, per certi versi patologici, che la docente solleva:

  1. A majority of nonprofits are ineffective and no one really cares
  2. Nonprofits don’t need to do a really good job: It’s charity!
  3. Nonprofits are less focused on being effective, than on making sure they have the resources to keep doing what they are doing

Come a dire: nella frenesia delle attività di reperimento dei fondi necessari alle attività statutarie, la maggior parte delle ONP finisce con l’essere inefficace. Questo, tuttavia, è un aspetto che poco importa perché giustificato dal proprio status di charity, paravento dietro al quale nascondere conseguenti fallimenti.

L’antidoto, spiega la Holloway, è solo uno:

Fare meglio ciò che già si fa bene!

Banale. Ed efficace direi.

La crescita passa, per forza di cose, da un modo nuovo di approcciarsi, concepire e agire il Terzo Settore. Uno su tutti, il pensarsi impresa che agisce all’interno di un Mercato con leggi definite. Chiamarsi fuori non aiuta e di certo non concorre al raggiungimento efficace ed efficiente degli obiettivi (o degli ideali) che hanno animato e promosso la nascita dell’iniziativa privata (profit o nonprofit che sia, ben inteso).

Ecco elencate le sei qualità che un’impresa (sociale o social oriented) dovrebbe possedere per essere definita virtuosa:

  1. DOUBLE O TRIPLE BOTTOM LINE (2 or 3BL): una CSR che sia strategia di sistema e non più solo attività accessoria (rimando, in modo particolare, a un precedente post pubblicato lo scorso luglio).
  2. SOSTENIBILITA’: un progetto d’impresa che duri nel tempo e che si autoalimenti.
  3. SCALABILITA’: un progetto d’impresa che sia proponibile e replicabile in contesti diversi.
  4. MISURABILITA’ (dell’impatto): un progetto d’impresa i cui obiettivi, costituenti e prodotti siano facilmente misurabili, economicamente quantificabili e le cui esternalità positive producano effetti di lungo periodo (LP).
  5. TRASPARENZA: attività in cui siano facilmente e immediatamente reperibili tutte le informazioni di cui si necessiti.
  6. ADATTABILITA’: progetti d’impresa in grado di innovarsi; capaci di mutare al mutare degli eventi.

Contorni definiti e ritorni certi.

Una bella sfida per chi è già pronto a coglierla ma che avrà di cui saziarsi per la sua benevolenza. Un futuro prossimo, ma non più eludibile – se si vuole competere e stare al passo di un Mercato in continua evoluzione -, per tutti gli altri.

Fonte delle foto: Master di Fundraising.

Condividi su:

Lascia un commento