La scorsa settimana abbiamo parlato di prospettive, di complessità, di nuove sfide. Oggi voglio fare un passo avanti. Perché è vero: le riflessioni servono, ma senza azione rischiano di restare sospese.

Quando si parla di fundraising con le nuove generazioni – la coda della Gen Z e la Generazione Alpha – non basta dire “dobbiamo pensarci”. Bisogna cominciare a fare, con strumenti concreti, tecniche applicabili, strategie che aiutino a trasformare le idee in pratiche reali.

Il fundraising con queste generazioni è difficile? Certo. Non è immediato, non è lineare, non è prevedibile. Ma non è impossibile. Richiede metodo, pazienza, e soprattutto la capacità di tradurre in strumenti pratici i principi che conosciamo: relazione, fiducia, senso di comunità.

Seminare relazioni, non solo richieste

Il primo errore da evitare è quello di continuare a ragionare in termini di campagne isolate, di messaggi “una tantum”, di richieste secche. I giovani non rispondono a queste logiche. Cercano continuità, una presenza costante che li faccia sentire parte di qualcosa.

Ecco perché con loro funziona di più la cura delle relazioni rispetto alla singola call to action.

  • Creare piccole community online, anche chiuse, dove possano sentirsi parte.

  • Usare le newsletter come strumenti di dialogo, non come monologhi: inserendo sondaggi, domande, spazi di risposta.

  • Trasformare i social in luoghi di scambio, non solo in bacheche autoreferenziali.

Il fundraising inizia qui: non chiedendo subito, ma costruendo appartenenza.

Linguaggio chiaro e codici condivisi

I giovani non vogliono essere trattati da bambini, ma non sopportano nemmeno i tecnicismi inutili. Ciò che cercano è schiettezza.

Parlare la loro lingua non significa copiare slang o forzare i registri (anche perché, diciamoci la verità, da mamma di un adolescente mi capita di non capirlo quando parla e lui ne ride). Significa, diversamente, adottare un tono diretto, comprensibile, rispettoso.

  • Brevi video con call to action non economiche: condividere, raccontare, partecipare.

  • Storytelling “dal basso”, affidato a giovani volontari o attivisti, così che la voce sia riconoscibile e non artificiale.

  • Gamification: piccole sfide, badge, percorsi di riconoscimento che alimentano il senso di partecipazione.

Il linguaggio è lo strumento con cui si apre la porta. Ma deve essere una porta vera, non finta.

Valorizzare il dono di tempo e competenze

Per chi non ha ancora autonomia finanziaria – o ne ha poca – il vero capitale è il tempo. E questo tempo, insieme alle competenze, è un dono prezioso.

  • Programmi di volontariato flessibili, anche digitali, che permettano di dedicare qualche ora senza vincoli rigidi.

  • Progetti peer-to-peer, in cui i ragazzi siano protagonisti e coinvolgano direttamente i loro pari.

  • Creazione di contenuti: dal reel al podcast, dal disegno alla campagna grafica, tutto può diventare contributo.

Ogni gesto va riconosciuto. Non solo perché è giusto, ma perché questo è il seme che, domani, diventerà dono economico.

Trasparenza radicale

Con la Generazione Z lo vediamo chiaramente: senza fiducia, nessun messaggio attecchisce. La fiducia nasce dalla trasparenza. Non da un claim, ma da un comportamento costante.

  • Report chiari e visuali sui risultati raggiunti. Non 40 pagine di bilancio sociale, ma infografiche comprensibili.

  • Aggiornamenti regolari, anche quando i numeri non sono ancora eclatanti. La sincerità paga sempre.

  • Dare volto e voce alle persone: chi lavora nei progetti, chi partecipa, chi beneficia. Non entità astratte, ma storie vive.

La trasparenza non è un “di più”. È la precondizione del dono.

Educare al pensiero critico

Questo è un punto che mi sta particolarmente a cuore. Parlare di cittadinanza globale non significa pensare tutti nello stesso modo. Significa allenarsi al pensiero critico.

Il fundraising può contribuire anche a questo, se lo leggiamo come un esercizio di comunità.

  • Laboratori nelle scuole, per riflettere insieme su temi sociali, ma mettendoci la (propria) testa.

  • Toolkit digitali che offrano strumenti di approfondimento.

  • Collaborazioni con gruppi giovanili, associazioni informali, spazi creativi.

Il dono non è mai unidirezionale. È dialogo. È scambio. È reciprocità.

Integrare strumenti digitali

Il digitale non è una moda. È il contesto naturale in cui queste generazioni vivono. Ignorarlo significa autoescludersi.

  • Piattaforme di crowdfunding che permettano micro-donazioni e sfide collettive.

  • Campagne pensate per i loro canali: TikTok, Twitch, Instagram, dove la brevità e l’immediatezza sono regola.

  • Applicazioni per volontariato e attivismo digitale: perché anche un’ora passata online a moderare, a raccontare, a diffondere un messaggio è già dono.

Il digitale è linguaggio, ma anche spazio di partecipazione. E non possiamo lasciarlo vuoto.

Insomma…

Il fundraising con le nuove generazioni non si costruisce con scorciatoie. Non è una questione di slogan o di tecniche prese in prestito dal marketing.

È un percorso lungo, che chiede di seminare oggi per raccogliere domani. Di riconoscere il valore del tempo e delle idee prima ancora del denaro. Di costruire fiducia giorno dopo giorno, con coerenza e trasparenza.

Gli strumenti ci sono, le tecniche anche. Ma funzionano solo se innestate su una visione più grande: quella di un non profit che sa prendersi cura delle relazioni e accompagnare, con pazienza, generazioni che un giorno saranno i nostri donatori più solidi.

Perché il fundraising non è mai stato convincere qualcuno a dare. È, da sempre, creare le condizioni perché quel dono diventi possibile.

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