beauty child at the blackboard

E poi c’è quell’incredibile voglia di crescere… Opportunità che solo un bando ti può dare. E allora, che fare? La risposta è: l’unica cosa sensata: rispondere. Ma farlo per bene.

Affatto semplice, specie da qualche tempo a questa parte perché fondazioni e imprese vogliono – giustamente – conoscere numeri e impatti prima di erogare, ma necessario per poter pensare in grande.

A parlarci di questo tema, Christian Elevati, progettista con qualche anno di esperienza alle spalle e docente alla Fundraising Academy sui temi della Teoria del Cambiamento nel corso intensivo Startup Fundraising (il programma 2019 sarà online da metà maggio) e in Progettazione efficace su bandi, il prossimo corso in avvia in Accademia. Tra cose da fare e cose da non fare, Christian ci accompagna in questo percorso con qualche suggerimento utile che consiglio vivamente. Buona lettura.

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Qual è il primo pensiero che vi viene quando sentite nominare la parola “progettista”? Dite la verità! Vi si visualizza immediatamente un tecnico, chino su un computer, in una stanza con scarsa illuminazione e circondato da montagne di incartamenti, che in solitudine si districa ansiosamente fra bandi e moduli. Per di più, sferzato continuamente da capi o clienti affinché raccolga più fondi possibili, non importa dove e come. Devo dirvi una cosa che immagino molti di voi già sanno:

c’è del vero in questa immagine! Le ragioni sono le più disparate e non dipendono soltanto né dalle organizzazioni in cerca di finanziamenti né dai – “poveri” – progettisti.

È un fatto che sia sempre più difficile raccogliere fondi attraverso la partecipazione a bandi, e per una serie di ragioni (fra cui però non troviamo, come forse potete pensare, il fatto che ci siano complessivamente meno soldi disponibili):

  • la riduzione media complessiva dei finanziamenti pubblici (media, perché non vale per tutti i livelli istituzionali e nemmeno per tutte le aree geografiche); chi nei tempi d’oro ormai lontani dei finanziamenti pubblici a pioggia aveva fatto la propria fortuna, oggi si trova in grossa difficoltà;
  • il numero sempre crescente di attori che possono e/o si attivano per partecipare ai bandi, con conseguente innalzamento della competizione;
  • le sempre maggiori richieste per poter partecipare ai bandi in termini di qualità della progettazione, di caratteristiche minime dell’organizzazione (in termini di curriculum, personale, fondi gestiti in passato…), di documentazione da produrre;
  • la necessità di fare rete e di creare partnership di valore, divenuta imprescindibile per la stragrande maggioranza dei bandi;
  • la sempre maggiore attenzione alla capacità di dimostrare rigorosamente i risultati raggiunti in termini di cambiamento generato a livello di outcomes e di impatto;
  • le numerose differenze fra le richieste dei vari donatori (ogni bando ha la sua modulistica, le sue linee guida, i suoi criteri di valutazione, le sue regole di rendicontazione…);
  • la continua ricerca da parte dei finanziatori di migliori modalità di gestione e valutazione delle proposte progettuali – di per sé lodevole –, che ha come contraltare per i progettisti un continuo doversi adeguare alle novità proprio quando si sperava di avere imparato a raccapezzarsi (se poi unite questo punto al precedente…).

Tutto questo non per scoraggiarvi! Io mi occupo di co-progettazione da anni e non ho mai cambiato parere sul fatto che sia un lavoro bellissimo. Lo chiamo lavoro di “co-progettazione” (e non progettazione e basta) per due ragioni:

1) anche il progetto più semplice non può fare a meno di alleanze;

2) i progetti, come dirò a breve, non si dovrebbero mai scrivere da soli.

Perché co-progettare è un lavoro bellissimo? Perché, a ben vedere, quello che facciamo quando co-progettiamo è:

  • immaginare un futuro migliore con le persone che lotteranno insieme a noi per realizzarlo, compresi quelli che, con una brutta parola (figlia di un approccio assistenzialista), siamo soliti chiamare “beneficiari”; del resto, progettare viene dal latino pro-jectus, letteralmente: “gettato avanti”, verso ciò che ancora non è;
  • metterci in discussione con partner e portatori di interesse, perché da soli andiamo veloci, ma insieme arriviamo lontano; con ascolto, apertura e disponibilità autentica al confronto si cresce rapidamente e si costruiscono basi solide che durano nel tempo, anche in contesti in continuo mutamento quale quello attuale;
  • descrivere il futuro che abbiamo immaginato molto concretamente e rigorosamente, facendo emergere i suoi punti di forza, ma anche quelli di chi lo trasformerà in realtà (la partnership), per dimostrare che “sì, ce la possiamo fare, abbiamo le carte per giocarcela fino in fondo!”;
  • dare valore ai risultati in termini di qualità della vita, diritti fondamentali, sostenibilità ambientale o qualsiasi altro valore sociale e ambientale stiamo promuovendo; con il progetto, creeremo valore e vogliamo fare sapere che saremo anche in grado di dimostrarlo!
  • convincere altre persone del valore della nostra idea di futuro tanto da spingerle a finanziarcela.

Certo, per fare tutto questo servono anche competenze tecniche, su cui lavoreremo al corso “PROGETTARE PER BANDIPotenziare la raccolta fondi attraverso la presentazione di proposte progettuali a fondazioni bancarie o d’impresa e a istituzioni”. Ma tenendo costantemente gli occhi puntati sul valore e sullo scopo del nostro lavoro, senza i quali tutte le tecnicalità del mondo perdono di significato (e ne risente anche la qualità della progettazione… anzi, della co-progettazione!).

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