
Negli ultimi giorni mi sono occupata della redazione di un codice etico per un’organizzazione non profit che ha richiesto di formalizzare principi e linee guida di comportamento, soprattutto per rafforzare e tutelare la fiducia con i donatori e garantire una gestione trasparente e responsabile delle risorse. Scrivere un codice etico non significa solo mettere nero su bianco un insieme di regole: significa definire l’identità e l’affidabilità di un’organizzazione, impegnandosi formalmente a rispettare determinati standard di correttezza e trasparenza.
Proprio mentre concludevo questo lavoro, una nota trasmissione televisiva riportava un’inchiesta su un presunto caso di distrazione di fondi all’interno di un’importante organizzazione non profit italiana in difesa degli animali. Si parla di risorse dell’organizzazione usate in modo inappropriato o comunque non per fini statutari. Come sempre in questi casi, prima di trarre conclusioni affrettate è necessario fare chiarezza, ma un dato è certo: episodi del genere gettano ombre su tutto il Terzo Settore, con il rischio di minare la fiducia che faticosamente si costruisce con i donatori e con il pubblico.
Trasparenza e onestà: due facce di una stessa medaglia
Ecco perché il tema della trasparenza non può essere un concetto astratto o un mero esercizio burocratico. Ogni organizzazione ha il dovere di rendicontare l’utilizzo dei fondi, non per semplice adempimento formale, ma perché chi dona ha il diritto di sapere come vengono spesi i propri soldi. Tuttavia, la trasparenza da sola non basta. È un elemento necessario ma non sufficiente. Perché oltre ai numeri, oltre ai bilanci certificati e pubblicati, c’è un principio che viene prima di tutto: l’onestà.
L’onestà è ciò che determina la correttezza dell’uso delle risorse, il rispetto della missione per cui sono state raccolte, la coerenza tra ciò che si promette e ciò che si realizza. La trasparenza è un dato contabile, l’onestà è una scelta etica. E qui sta la differenza: si può essere trasparenti e allo stesso tempo disonesti, presentando dati formalmente corretti ma celando dietro di essi pratiche scorrette. È per questo che ogni organizzazione deve non solo comunicare con chiarezza, ma soprattutto agire con integrità.
Il rischio di generalizzazione
In linea generale, nel momento in cui le cronache riportano casi ritenuti di malagestione, il rischio è che il dubbio e la sfiducia si estendano a tutto il settore. È ingiusto, ma è naturale. Ed è per questo che le organizzazioni serie devono alzare ancora di più il livello di attenzione e di impegno.
Come agenzia e in veste di fundraiser, il nostro lavoro non si limita ad affiancare l’ente nella costruzione dei propri percorsi di sostenibilità, ma include anche un costante impegno per rafforzare la credibilità delle organizzazioni con cui collaboro. Per questo, oltre a costruire strategie di raccolta fondi efficaci, ritengo fondamentale supportare le organizzazioni nell’adozione di strumenti concreti di accountability. Un codice etico ben strutturato è uno di questi strumenti: non solo un documento, ma un impegno formale a operare con correttezza, ad assicurare una gestione trasparente delle donazioni, a proteggere il rapporto di fiducia con i sostenitori.
Allo stesso tempo, anche i donatori devono esercitare il loro diritto-dovere di vigilanza. Non basta scegliere un’organizzazione per il suo nome o per l’emozione che suscita una campagna di comunicazione. È importante informarsi, verificare la solidità delle pratiche di rendicontazione, porre domande sugli impatti concreti dei progetti sostenuti.
Custodi della fiducia
I fondi donati non appartengono alle organizzazioni: sono risorse affidate loro per realizzare un bene comune. Questo significa che la loro gestione deve essere guidata dal principio della correttezza prima ancora che dalla semplice trasparenza. Le organizzazioni devono operare come custodi responsabili delle risorse ricevute, e i donatori devono essere attori consapevoli nel loro sostegno.
Il Terzo Settore non può permettersi zone d’ombra. Se l’errore è frutto di leggerezza e non di malafede, possiamo comprenderlo, pur senza giustificarlo. Agire senza sapere è un problema: meglio informarsi e formarsi, evitando di dare per scontato ciò che si sa. Il dolo, invece, è inaccettabile: la tutela del diritto alla fiducia va posta in primo piano.
Ogni organizzazione che lavora con serietà e dedizione ha l’interesse a distinguersi da quelle che, invece, tradiscono la fiducia pubblica. Ed è per questo che la responsabilità non è solo di chi lavora nel settore, ma anche di chi lo sostiene. Vigilare, pretendere chiarezza, premiare la correttezza con la propria fiducia: è così che possiamo proteggere il valore del non profit e garantire che le buone cause restino tali.
Perché non ci puntino il dito se non ce lo meritiamo, eh!