Chi dona ha il potere? La risposta potrebbe propendere per il no. Sappiamo bene quanto il dono sia gratuito, generoso, libero. Ma le cose non sono sempre così semplici. Anche il dono ha le sue ambiguità, e chi lavora nel fundraising lo sa bene.

Dietro ogni gesto generoso può celarsi – non per forza con malizia – una dinamica invisibile di controllo. Un “ti aiuto” che significa “decido io”. Una donazione vincolata a precise condizioni. Una richiesta che, più che partecipazione, può suonare come imposizione.

È il lato nascosto della filantropia, quello meno raccontato. Quello in cui il donatore non è solo un alleato, ma diventa anche un condizionatore. Delle scelte, delle parole, delle priorità. Succede spesso, più di quanto si dica. A me è successo e questo, inutile dirlo, è frustrante perché mette in moto il senso del dovere verso qualcosa o verso qualcuno di cui faresti volentieri a meno, ma non sempre ti è possibile. Sono dinamiche che non riguardano solo i grandi donatori come verrebbe da pensare. Anche nel fundraising quotidiano – quello fatto di lettere, e-mail, post sui social – ci si confronta con questa realtà scomoda.

Perché chi chiede si sente spesso in posizione di debolezza. Chi dà, chiede conto; a volte, visibilità; altre, desidera avere voce in capitolo.

È legittimo? Forse sì. È giusto? Dipende. È un problema? Quando snatura la missione, assolutamente sì.

Il fundraising, specie a certi livelli, è un processo di negoziazione, ma gli attori in gioco devono avere un vantaggio reciproco che rende entrambi soddisfatti, diversamente diviene subordinazione, mettendo in atto meccanismi difficili da recuperare poi.

In economia c’è una frase che mi porto dietro fin dai tempi dell’università e che uso ancora spesso: moneta cattiva scaccia quella buona. Occhio quindi ad analizzarlo per bene il valore di questa moneta.

Ed eccoci al punto cruciale: fino a che punto siamo disposti a cambiare per tenere buono un donatore? Quanto pesano i “grandi” nomi, le cifre importanti, le promesse condizionate?

Succede che, in nome del bisogno, si rinunci a un pezzetto di autonomia. Succede che, pur di non perdere un sostegno, si scelga una strada che non appartiene davvero. Così il fundraising – nato per rendere possibili i sogni di un’organizzazione – rischia di trasformarsi in una leva che li ridisegna, li distorce, li sposta altrove.

Dov’è allora il confine tra accoglienza e compiacenza? Tra ascolto e subordinazione?

Il fundraising sano sa dire no. Sa rifiutare una donazione quando le condizioni poste sono incompatibili con i valori dell’organizzazione. Sa accompagnare il donatore, ma senza piegarsi. Sa che il dono non è una moneta di scambio. È un patto di fiducia reciproca.

Non siamo qui per vendere un prodotto. Siamo qui per costruire un cambiamento. E in questo cambiamento il donatore ha certamente un ruolo. Un ruolo importante, prezioso. Ma mai totalizzante. Il suo contributo può essere decisivo, ma non può riscrivere da solo la rotta.

Serve questa consapevolezza. Serve che il fundraising rimanga adulto. Capace di accogliere il dono senza perdere la propria identità. Capace di esprimere gratitudine senza scivolare nella subalternità. Capace di dire con fermezza: “Grazie, ma a questo punto, anche no.”

Perché solo si costruisce una cultura del fundraising che non è solo raccolta, ma anche integrità. Perché il fundraising autentico, e di questo sono convinta, non cerca donatori che impongano la rotta, ma compagni di viaggio capaci di condividere la direzione. Con rispetto, fiducia e libertà reciproca. Verso un obiettivo comune che renda entrambi pacificamente soddisfatti.

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