Nel 2020, causa lockdown, l’online ha subito un’accelerata. Molti enti nonprofit hanno provato ad adeguarsi a un nuovo stato delle cose, questo senza dubbio, ma con quali risultati? A entrare nel merito del tema, Carolina Fagioli, Google partner e docente di digital in Startup Fundraising, corso intensivo della Fundraising Academy al via il prossimo autunno. Buona lettura.


Una delle conseguenze della pandemia è senz’altro la diversa fruizione del web: il lockdown del 2020 ha spostato la nostra intera vita, privata e professionale, online. Solo per pochi mesi, certo, ma è stato un cambiamento impattante e irreversibile: la sovrapposizione tra online e offline è ormai acquisita come parte del quotidiano di ognuno di noi.

Sono stati scritti fiumi d’inchiostro (per lo più virtuale) sulle implicazioni che derivano da questi mutamenti e l’aspetto sul quale mi vorrei soffermare vi è legato in modo indiretto: la ricerca dello stupore nella realizzazione di un sito web.

Nel 2020 l’online è stato una sorta di rifugio obbligato. Per quanto quasi chiunque avesse almeno una piccola esperienza in questo senso (dall’uso delle mappe di Google ad un account Facebook), il lockdown ha portato un coinvolgimento più profondo con il digitale: questo ha generato utenti spesso impreparati ad un uso così totalizzante dell’online e la nascita di tanti, tantissimi nuovi siti web, a volte altrettanto acerbi.

Parallelamente, c’è stata una spinta che ha permesso di diffondere, molto più velocemente del previsto, nuove tecnologie e dispositivi per connettersi.

E dunque, torniamo ai nostri siti web:

se siamo tutti online – e in un senso così ampio! – emergere, coinvolgere e restare impressi nelle menti (e nei cuori) delle persone con cui vogliamo stringere una relazione diventa più difficile.

Online siamo tutti così vicini e facilmente raggiungibili da confonderci, sommergere e disorientare le persone che vogliamo raggiungere:

l’attenzione – già bassa – è ancora più rarefatta a causa dell’esposizione costante sui tanti dispositivi disponibili, ed è quindi fondamentale catturarla.

Una delle opzioni è senz’altro la ricerca dello stupore: le evoluzioni del web ci permettono di implementare nei nostri siti elementi che arricchiscono i contenuti rendendoli più coinvolgenti immediati, interattivi, efficaci.

Ma davvero per lasciare un segno dobbiamo ricorrere agli effetti speciali?

Come spesso accade, trovare una risposta univoca è impossibile: può essere d’aiuto focalizzarci sugli obiettivi legati alla nostra presenza web.

Non dobbiamo infatti distrarci – noi per primi – dall’obiettivo reale: lo scopo finale non è catturare l’attenzione, ma far sì i nostri contenuti vengano fruiti.

L’”effetto speciale” deve catturare e accogliere le persone che vogliamo raggiungere, per poi accompagnarle verso i nostri contenuti: ciò che accade dopo dipende dalla qualità di questi ultimi. Tuttavia, l’uso eccessivo di elementi di questo tipo va nella direzione opposta, appropriandosi dell’attenzione degli utenti, riducendo la propria eccezionalità e appesantendo il sito con il rischio di peggiorarne le prestazioni.

Questo non implica che la risposta sia nel minimalismo di siti eccessivamente scarni, ma se siamo online per stringere relazioni la ricerca dello stupore dev’essere solo un mezzo (magari bellissimo), mai un fine.

Il rischio è cadere nel manierismo e diventare indimenticabili per il motivo sbagliato: i nostri pubblici devono ricordare il buon lavoro svolto nell’ambito della nostra mission, e – auspicabilmente – scegliere di farne parte.

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Carolina Fagioli è docente del modulo
Il digital fundraising
al corso intensivo
STARTUP FUNDRAISING
CHE TORNA IN AUTUNNO. ISCRIZIONI APERTE.

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