È necessario passare da uno stadio di profonda povertà gestionale come quello attuale a una più rigogliosa e sana attività critica e di rilancio che abbia come fine il cambiamento radicale dello stato dei fatti, a favore di una ricchezza sociale diffusa e condivisa. Questo significa tuffarsi con spirito autocritico in una fase di analisi interna radicale che può rinverdire il Terzo settore ed essere motore del cambiamento in atto.
Nel post che segue, ospito con grande piacere il pensiero di Giorgio Fiorentini, Senior Professor dell’Università Bocconi, sul tema della valutazione dell’impatto sociale.
Buona lettura.
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Il dibattito di questi ultimi tempi, inerente il pauperismo del terzo settore generato dall’adozione di scelte da “progettificio” da parte delle “imprese sociali” (termine economico aziendale che vale sia per ETS sia per imprese sociali “ex lege”) e finanziamento quale adeguato “supporto generale operativo” che prescinde in parte dai progetti, fa emergere ciò che tutti hanno sempre saputo, ma nessuno ha mai voluto far diventare una linea guida culturale in termini economico aziendali:
il Terzo settore, per giocare un ruolo significativo nel sistema socio-economico, deve sfidare la valutazione d’impatto, la quantificazione proxi come orientamento e come base di “benchmark” e la “monetizzazione” orientativa del valore sociale. In caso contrario aumenterà l’asimmetria informativa e comunicativa nei confronti degli stakeholders e degli shareholders che ora potrebbero avere una motivazione a investire determinata dalla redditività “cappata” delle imprese sociali “ex lege”.
Questo approccio in parte è stato dettato dal fatto che era conveniente per il finanziatore (pubblica amministrazione, privato di fondazioni “grant making”, privato filantropico aziendale ecc.) sviluppare attività correlate più alla quantità di progetti che al rapporto fra quantità e qualità dei risultati raggiunti dai progetti stessi nonché gestire relazioni clientelari utili per il ROI politico. Ovviamente, comprimendo i costi dei progetti da finanziare si avevano più risorse per altri progetti finanziabili.
Quest’affermazione non implica un assetto di costi senza limiti, ma l’adozione dell’imperativo categorico dell’equilibrio gestionale ove i ricavi socio economici sono superiori e più che proporzionali rispetto ai costi.
Ora “tutti i nodi vengono al pettine” e il Terzo settore è cosciente del fatto che se non fa scelte di “equilibrata ricchezza” funzionale e gestionale” è destinato a marginalizzarsi continuando a vantare “valorialità” senza avere “valore di gestione imprenditoriale” che gli permette lo sviluppo e non la sola sopravvivenza.
La soluzione è quella di attivare una valutazione di impatto “ex ante” rispetto ai progetti e alle attività da confrontare con una valutazione “ex post” e tale da verificare se si sono raggiunti i risultati che si erano prospettati.
Se ciò non fosse è necessario verificare le cause e comprendere quali sono le modificazioni “gestionali e organizzative” che si devono adottare per l futuro. In questo modo il Terzo settore può mantenere il suo ruolo e crescere come attore del sistema paese.
Questa considerazione indica che gli ETS e le imprese sociali necessitano del presidio di imprenditorialità sociale che “produce attività” oggetto di valutazione di impatto sociale come espressione dell’affidabilità continua.
Tutto questo avviene in un contesto ove si riconosce agli ETS ed alle imprese sociali la profilatura di soggetti privati sotto il profilo della veste giuridica, ma pubblici per le finalità di utilità e promozione sociale che perseguono.
La nostra Costituzione si mostra consapevole della rilevanza del fenomeno. In specie i principi sanciti dagli artt. 18 (libertà di associazione) e 118 (sussidiarietà) rafforzano e valorizzano gli spazi per l’affermarsi di questa visione della vita economica e sociale del Paese.
È quasi pleonastico affermare che la valutazione è qualitativa e quantitativa (approccio olistico) anche se il concetto di quantità permette di soddisfare l’esigenza di avere dei proxi espressi in metrica (“numeri”, indicatori, indici) che offrono un sistema di riferimento e un linguaggio universale e comprensibile a tutti.
Riporto la frase di J.W. Goethe che scriveva:
Dicono che i numeri governano il mondo. Non so, ma di certo ci dicono se sia governato bene o governato male.
La valenza quantitativa permette di strutturare un minimo comun denominatore (per es. monetizzazione, indicatori, indici) utile per il controllo e il monitoraggio, significativo per attivare il confronto fra vari enti, percepibile in forma diretta e semplice per il ricercatore e l’osservatore. Ciò permette di confrontare le quantità non tanto e non solo per vigilare, monitorare e controllare, ma anche per offrire una base informativa omogenea e utile a dinamizzare in modo imprenditoriale gli ETS e le imprese sociali.
Il concetto di “dinamizzare”, in termini economico-aziendali, attiva il sistema di imprenditorialità sociale che sottende ogni ETS e ogni impresa sociale, indispensabile per sviluppare un “effetto leva” e un moltiplicatore delle risorse (umane, economico-finanziarie, patrimoniali) a disposizione e finalizzate al bene comune.
Una valutazione di impatto, per esempio in fase di business plan per un progetto sociale, è base funzionale per una gestione delle attività in modo efficiente, efficace, continuativo e con economicità. La valutazione sociale ed economica è la componente indispensabile della “filiera di valutazione” che sarà sempre più una parte del quadro di riferimento della finanza (sociale) e della filiera sussidiaria.
Infatti i finanziamenti pubblici o privati (istituzioni nazionali ed internazionali, fondazioni di origine bancaria, fondazioni d’impresa, social venture capitalist, venture philantropist, donatori individuali o corporate, clienti di campagne di fundraising ecc.) alle non profit ed alle imprese sociali si struttureranno in una filiera ove il finanziatore chiederà, ex ante, quale sarà l’impatto sociale delle attività poste in essere dall’impresa sociale nonché, a consuntivo (in logica di rendicontazione ed accountability) ed ex post, quali sono i risultati in chiave di impatto sociale ed economico sviluppato.
Non si potrà prescindere dall’adozione di modelli di valutazione.
Nella declaratoria (art.7, punto 3,L.106/2016) che sottolinea l’esigenza di valutare gli effetti sul breve, medio e lungo periodo la considerazione quasi scontata è il riferimento al medio e lungo periodo che è un “mantra” quasi banalizzato e di maniera. Non altrettanto si considera il breve periodo.
Infatti, nella cultura del Terzo settore e delle organizzazioni sociali, la considerazione dominante è che il breve periodo è un arco temporale che attiene all’indispensabile attività tattica e di base, ma non ha una proiezione di spessore strategico se non come “inizio” di un processo.
Per questo motivo l’attività “a breve” spesso non è oggetto di valutazione di impatto sociale, ma solo di semplice impatto conseguente ai processi di produzione ed è delineato in termini descrittivi e statici (le quantità sono fine a se stesse); e inoltre l’attività “a breve” di un ente non profit e di una impresa sociale è considerata sociale in re ipsa.
Invece si dovranno adottare strumenti di valutazione a breve orientati al sociale.
Essi permetteranno di passare dalla teoria strategica al risultato e fissare gli obiettivi specifici; a differenza della pianificazione strategica, la programmazione operativa sociale si declinerà nel breve periodo (semestre, anno) in logica di efficienza e del rapporto quantità di output sociale/quantità di input sociale.
Con la Riforma del Terzo settore si sottolinea che
è necessario sviluppare un modello di valutazione di impatto sociale, anche a breve, che permette di monitorare e controllare i processi in chiave dinamica e offre l’opportunità, da subito, di comprendere se gli effetti delle attività svolte sulla comunità di riferimento hanno un prius di processo utile e funzionale al raggiungimento degli obiettivi a medio e lungo periodo.
Questo approccio evita il concetto, quasi fatalista, dello “sperare” che si raggiunga l’obiettivo individuato, spesso motivato dal fatto che integrando risorse sociali e valoriali non si possono tracciare processi ancorati a “valutazioni quantitative di sviluppo” e con una aleatoria sostenibilità economica prospettica. Evita anche di trovarsi alla fine del progetto con risultati negativi, considerando che stiamo trattando di progetti operativi e non di progetti di ricerca. Per questi ultimi si faranno sperimentazioni ad hoc senza vincoli di risultato positivo. Con una valutazione di impatto sociale ed economico applicato alle attività “a breve”, si nota se la direzione scelta è corretta o meno e quali sono le probabilità di successo delle attività poste in essere.
In sintesi, la valutazione d’impatto è il futuro gestionale per le ETS e le imprese sociali e permetterà di uscire dal “pauperismo” come modello gestionale (spesso adottato giocoforza per poter realizzare progetti indispensabili alla sopravvivenza) per raggiungere livelli gestionali equilibrati che incrementano la ricchezza sociale del sistema paese.
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Guest post. Txs to Giorgio Fiorentini, Bocconi. Professore di Management delle Imprese Sociali all’Università Bocconi. Sempre in Bocconi è Responsabile dell’area Imprese Sociali e Aziende Non Profit del Centro di ricerche sulla gestione dei servizi sanitari e sociali (CERGAS); membro del comitato Community and Social engagement; coordinatore progetto ”Dai un senso al profitto”; fondatore e direttore scientifico del Master Universitario in Management delle IMPRESE SOCIALI –SdaBocconi. Ultime pubblicazioni: La dote e la Rete, una policy e un modello per le non autosufficienze, Fondazione Easy Care, RE (2016); con G.Sapelli, G.Vittadini, Imprenditore: Risorsa o problema, BUR (2014); con V.Saturni, AVIS in the Italian transfusion System, FrancoAngeli (2013); con F. Calò, Impresa sociale e Innovazione Sociale, Franco Angeli (2013).