Quello dei costi generali del nonprofit è un tema che torna protagonista a intervalli regolari. Non ultimi, gli speciali di Gabriella Meroni e Valerio Melandri sul numero di febbraio di Vita (o su queste pagine). Oppure Marco Crescenzi su Il Fatto Quotidiano, i cui toni a commento poco felici Massimo Coen Cagli liquida con un semplice ed efficace giudizio: “il posto sbagliato dove dire cose giuste”.
Quando si toccano i soldi, insomma, non ci sono storie. E’ sempre uno stillicidio di pensieri. Il rischio dell’incomprensione è alto. Il Terzo Settore non fa eccezioni. Anzi… mi verrebbe da dire. Quando si parla di nonprofit, la parolina “denaro” viene sapientemente bandita dai discorsi. Non si fa. Non si dice. Non sta bene. Ma nella mia professione, quella del fundraiser, l’argomento è imprescindibile e all’ordine del giorno. Che si parli di donatori, di progetti, di lavoro retribuito o volontario, di dialogatori, di missione, il denaro è attore protagonista con tutte le implicazioni che il suo ruolo comporta. L’abilità sta nel gestire la delicatezza dell’argomento: sempre in equilibrio tra gli obiettivi d’impresa e l’attenzione a non urtare la sensibilità altrui in materia.
Gli amici di Uidu hanno sollecitato un mio pensiero sul tema. E quindi eccolo qui, molto semplice: i costi generali non sono cosa altra rispetto agli obiettivi sociali. Ritengo necessario passi il concetto che i due aspetti non possono in nessun caso venire scissi!
Provo a rappresentare il concetto portando l’attenzione su due soli aspetti a mio modo di vedere fondamentali per comprenderne le radici e cominciare a scardinare l’attuale, persistente e dura a morire, convinzione culturale:
1. FRAINTENDIMENTO SEMANTICO. Il primo errore sta proprio nella parola in sé. In termini puramente economici, se prendiamo due imprese, una profit e una nonprofit, la prima ha come obiettivi la massimizzazione del profitto e la ripartizione degli utili (a meno che non si decida diversamente). La seconda prevede che l’avanzo di gestione eventuale venga destinato interamente all’attività d’impresa (o causa sociale, o attività istituzionale o come preferite). E’ questo il perno attorno al quale ruota l’accezione “nessun profitto”. Si preferisce l’utilità sociale (intesa come socialmente condivisa) all’utilità individuale (intesa come arricchimento personale). Questo approccio è ben lungi, quindi, dal significare la relazione “nonprofit = noncosto (alias: gratis)”.
2. COMPOSIZIONE VOCI DI COSTO. Consideriamo il progetto nella sua globalità. Come si fa a calcolarne il valore reale? Molto semplicemente, il valore di un progetto è costituito da una serie di elementi distinti che concorrono, insieme, a dargli corpo. E quindi? Ci scandalizziamo se diciamo che se un progetto è costituito da diverse voci allo stesso modo lo è il mezzo attraverso il quale il progetto si realizza? Non so se ho reso l’idea… Concludo dicendo che, allo stesso modo, anche il lavoro volontario sarebbe non solo ingenuo ma anche immaturo considerarlo estraneo da concetti economico-finanziari. Detto in altri termini: non è che se non c’è transazione significa che non c’è nessun costo. Un bravo amministratore è assolutamente consapevole che quel che c’è dietro la gratuità, il progetto, la donazione, è ben più complesso di quel che possa sembrare.
I tempi sono cambiati. Rendersene conto è il primo vero passo avanti per accettare l’odierno stato dell’arte. Se non proprio quello di rendersi complici del cambiamento. Mai come in questo caso è opportuno scendere a compromessi. Mai come in questo caso sarebbe opportuno sgombrare la mente da preconcetti. Mai come in questo caso sarebbe opportuno educarsi a vedere il Terzo Settore con occhi diversi, inserito in un contesto diverso, in una storia diversa.
Quel che è certo è che forse dovremmo tutti imparare a imporre il valore (morale) del nostro operato e dare valore (economico) al nostro agire a chi di valore (morale + economico) non vuole nemmeno sentire parlare.