Io sono un’abitudinaria. Nella gestione delle cose di tutti i giorni, mi lego alle consuetudini. Ed ecco che non amo particolarmente fare la spesa nei grandi supermercati. Preferisco la bottega vicino casa, quella da cui mi servo da una vita, o il minimarket poco più in là, quello con 3 corsie massimo e in cui so che se entro alle 6 del pomeriggio, sono fuori per le 6.30 e in questo tempo ci metto anche una chiacchierata con il banconista.
Poi pago, magari un po’ di più ma nelle borse, oltre alla spesa, mi porto a casa anche la simpatia e il volto amico che mi conosce e si interessa a me, a come sto, almeno in quel frangente. Nella professione succede più o meno la stessa cosa: il lavoro negli anni è cambiato ma alcune figure di riferimento sono rimaste. Il mio commercialista, ad esempio, è colui che mi segue da una vita, da quando a 18 anni ho fatto la pazzia di mettermi in proprio. Era neolaureato allora e ora ha uno studio avviato. Lo stampatore che mi seguiva allora, mi segue tuttora. Se ho bisogno, loro ci sono: non ci sono sabati, non ci sono domeniche. Ci sono sempre.
Come si chiama questa? Fiducia, ed è reciproca. E da cosa nasce questa fiducia? Dalla conoscenza.
In termini di mercato, gestire le relazioni significa capire cosa il consumatore vuole e cercare di soddisfarlo. La comprensione di queste dinamiche è fondamentale per ogni impresa e il nonprofit non fa eccezione. Se questo è vero nelle relazioni umane personali, perché non può valere nelle organizzazioni?
Fiducia e stima reciproche nascono dalla frequentazione e dalla conoscenza. Questi 4 aspetti concorrono, insieme, a generare vantaggio competitivo. Il vantaggio competitivo fa la differenza tra vivere bene e cavarsela.
Il nonprofit ancora una volta non fa eccezione.
Le persone donano alle persone in cui credono. E’ una questione di fiducia.
Le grandi organizzazioni lo sanno bene. Così, oltre a fare bene il lavoro sociale che sono chiamate a svolgere, sanno comprendere e soddisfare le aspettative del donatore e dello stakeholder in genere. Così facendo, detengono la leadership in un’area di mercato specifica e in poche si spartiscono la maggior parte del mercato delle donazioni.
Per le piccole e medie organizzazioni competere diventa un’operazione quindi, difficile ma non impossibile però, perché nel mercato c’è spazio per tutti se si fa bene (proposta di valore) e si investe in modo adeguato (marketing e comunicazione).
Ma quali sono gli elementi su cui investire per determinare il vantaggio competitivo?
- Mantenere un’alta qualità del prodotto o servizio erogato;
- Garantire la distintività del prodotto o servizio erogato;
- Essere capaci di dare valore alla marca (la brand essence deve essere centrale ai processi di comunicazione);
- Sviluppare l’immaginazione favorendo i processi creativi interni;
- Investire sulle relazioni;
- Rispondere alle sollecitazioni del mercato.
Quali invece gli aspetti che inficiano le attività delle organizzazioni?
- Banalizzare il servizio o prodotto erogato;
- Erogare un servizio standard e con caratteristiche simili a molti altri;
- Comunicare in modo non adeguato, svilendo di fatto la qualità del servizio o prodotto dato;
- Non ascoltare i bisogni dello stakeholder;
- L’autoreferenzialità;
- Non monitorare i cambiamenti del mercato.
Nel nonprofit bisogna imparare a ragionare in termini di vantaggio competitivo e questo è un aspetto su cui il fundraiser è chiamato a lavorare perché da questo dipendono qualità e costanza del dono. Detto più semplicemente, fare la differenza significa garantirsi solidità, stabilità, sostenibilità.