Quando si parla di comunicazione, si sembrano dare per scontati alcuni aspetti di per sé fondamentali, in particolare l’attenzione al punto di vista del destinatario e l’importanza del messaggio. Così, quanto prodotto, pur piacendo molto a chi lo fa o, magari, spingendosi più oltre, pur con l’essere un bell’esercizio di stile, finisce con l’essere solo questo: un prodotto piacevole a vedersi (forse, aggiungerei) ma inefficace in termini di ritorno. Quindi, inutile. Comunicare sembra facile ma non lo è. Occorrerebbe partire da qui. Anche quando si tratta di sociale. O in particolare quando si tratta di sociale. Destinatario e messaggio sono temi centrali di un primo comportamento che vale la pena analizzare: l’omologazione. Marco Grumo, coordinatore scientifico e didattico del Master Mhuse di Altis, durante una delle sue lezioni sulla managerialità all’interno del nonprofit, ha usato un’espressione che riassume perfettamente lo stato delle cose:
Siamo in un mercato di spinte omologanti. Chi si piega all’omologazione, perde.
Questa è la verità: nuda e cruda. Ancora. Scrive Marco Binotto (@marcobinotto) sul suo blog:
Per anni ho studiato e poi insegnato l’indissolubile legame tra creatività e comunicazione, la necessità di innovazione e diversità. Poi basta raccogliere casualmente una decina di lettere di #raccoltafondi ricevute da uno stesso indirizzo da parte di organizzazioni non profit per ritrovarsi un panorama incredibilmente omologato…
Se i nostri progetti di missione sono il core delle nostre organizzazioni, non possiamo prescindere dal promuoverli bene. L’omologazione è pericolosa se strisciante. Se perduriamo nell’adottare comportamenti che non tengono conto dell’oggetto di missione e non costruiscono il proprio messaggio intorno a questo se non per meri fini strumentali, a lungo andare finiremo con l’inficiare la bontà delle nostre azioni con danni in termini di reputazione e credibilità. E di identità. Non poca cosa. L’antidoto all’omologazione si chiama originalità. Essere originali non è facile ma, credimi, si può fare. Ma destinatario e messaggio sono temi centrali di un altro comportamento comune: l’improvvisazione. Realizzare un qualsivoglia strumento di comunicazione o, peggio, un logotipo prescindendo da un’analisi dell’identità, degli obiettivi, dei destinatari, dei competitor, senza la stesura di un brief, è il primo passo per buttare via quei pochi soldini destinati alla promozione di sé senza, al tempo stesso, ottenere risultati apprezzabili che premino lo sforzo. L’infinità degli strumenti di autoproduzione messi a disposizione dal web e non solo, rende tutti un po’ creativi. E qui sta l’errore: non tutti lo sono. E si vede. Un vero peccato. L’antidoto all’improvvisazione si chiama tempo. Datti tempo per analizzare in modo puntuale chi sei, cosa fai, cosa vuoi, cosa offri, a chi lo offri, perché lo offri, quanto vale quest’offerta per il tuo destinatario, quanto si differenzia dall’offerta già presente, come puoi dirlo e qual è il modo migliore per dirlo. E non è detto che un risparmio si traduca, per forza di cose, in un guadagno. Omologazione e improvvisazione rendono sterile il messaggio, spesse volte autoreferenziale, poco comprensibile al destinatario e, di conseguenza, poco efficace. Studio e originalità sono la cura a linguaggi sempre uguali e poco stimolanti. Investimento e innovazione, i canali attraverso i quali renderli sostanza. Ma siamo già pronti a coglierne le opportunità? Davvero?
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