A scrivere è Chiara, una giovane copywriter del nonprofit ma con tanta esperienza sul campo. Colloqui, piccole collaborazioni, progetti interessanti, un blog. Sempre pronta a cogliere una nuova avventura ma con la voglia, grandissima, di credere fino in fondo a un progetto e a questo dedicarsi. Questa è la sua storia. La sua riflessione su un percorso professionale che accomuna molti di noi, giovani e meno giovani in egual misura. Se ti riconosci, se ti piace, se condividi il suo percorso e il suo pensiero o se hai qualche consiglio prezioso, scrivile qui. Chiara, ne sono certa, sarà lieta di ascoltarti.

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Seguendo La Zanzarella”, rubrica che Elena cura su Vita.it, ho avuto modo di leggere un suo interessante post dedicato alla professione del fundraiser e, più in generale, al lavoro nel settore nonprofit: Non si diventa fundraiser leggendo un libro. La sua domanda chiave è: a partire da quando ci si può definire un fundraiser? Aver seguito un percorso di studio ad hoc aiuta, ma non basta: oltre la teoria è indispensabile l’esperienza. Su questo credo siamo d’accordo un po’ tutti.

Ma chiediamoci:

quali sono i parametri seguiti dalle ONP per la ricerca di personale interno o esterno? Quali elementi consentono di affermare “questa è la persona che stiamo cercando”? È sempre il candidato a non essere idoneo oppure, a volte, la strategia di selezione è poco accurata?

Secondo la mia esperienza personale, esistono diverse incongruenze che creano alte aspettative (prima) e cocenti delusioni (poi) a chi sogna di lavorare nel Terzo Settore.

Un’associazione nonprofit non deve solo “riempire le casse”. Non ha bisogno di un venditore, ma piuttosto di un buon diplomatico: uno specialista delle pubbliche relazioni, che sappia promuovere la Buona Causa a diverse tipologie di pubblico guadagnando credibilità e consensi. Un professionista che sia capace di mediare e suggerire soluzioni concrete per la costruzione di un gruppo di lavoro affiatato e coeso intorno alla strategia da seguire. Un fundraiser, secondo me, è prima di tutto un bravo comunicatore. Qualcuno dirà: non è vero, il bravo fundraiser è solo chi raccoglie milioni di euro per la sua organizzazione! Senza dubbio, rispondo. Come ha scritto Elena, la professionalità deriva dal “riconoscimento” e ciò è possibile solo in presenza di risultati concreti e misurabili. Chi non riesce a comunicare con gli altri nel modo giusto, però, difficilmente troverà nuovi sostenitori!

Il Terzo Settore è di moda?

Sono centinaia le facoltà universitarie che offrono percorsi ad hoc a chi aspira a diventare “imprenditore sociale”. Migliaia i master e i corsi di Alta Formazione. Trascorrere un periodo all’Estero, per studio o per lavoro, è ormai più facile rispetto al passato. Ogni ONP, quindi, grande o piccola che sia, si trova a dover giudicare, all’occorrenza, elenchi infiniti di titoli ed esperienze di buon livello: scegliere diventa complicato.

Il mio dubbio è il seguente: siamo davvero sicuri che una laurea o un master specifici siano sufficienti per diventare fundraiser, progettista o cooperante? Al contrario, siamo certi che chi non ha mai studiato le dinamiche del Terzo Settore, sia esperto solo perché ha deciso di occuparsi di sociale da 2-3 anni a questa parte? E, magari, senza aver mai fatto volontariato in vita sua o, peggio, una donazione? (per la serie: predico bene e razzolo male).

È bello constatare che ci sia tanta gente interessata a rendersi utile e lavorare con impegno per un mondo migliore. Ciò che mi preoccupa è scoprire che tutto questo entusiasmo sia solo frutto della moda del momento, secondo cui il sociale è la nuova miniera d’oro, perché il Terzo Settore è l’unico a non soffrire la crisi e a dare posti di lavoro (secondo quanto i giornali affermano ultimamente). Non mi sembra sia così: le porte aperte sono poche e, di sicuro, la domanda è di gran lunga superiore all’offerta. Inoltre: non si lavora in questo settore per dire “guarda quanto sono bravo, guarda quanti progetti ho realizzato!”.

Non è il fundraiser a vincere, se una campagna ottiene un buon ritorno, ma l’intera organizzazione e la sua causa. Lasciamo a casa i piedistalli.

Le diverse sfumature dell’esperienza sul campo

Sono convinta che per lavorare nel Terzo Settore sia necessario un buon mix di studio, esperienza e motivazione (anche di umiltà… ma questa è un’altra storia). In particolare:

  1. Un percorso di studi a tema (come arrivi a ricoprire il ruolo di “Responsabile Comunicazione e Fundraising” un laureato in chimica o in architettura, scusate, ma non riesco ancora a capirlo…).
  2. Esperienze dirette a vario titolo (dal volontariato, allo stage, alla consulenza esterna, all’impiego vero e proprio) unite ad una spiccata capacità di critica e autocritica: poiché “ogni esperienza insegna”, se ciò che facciamo non lascia una minima traccia, anche negativa, ai fini della nostra crescita professionale quell’attività non aggiungerà alcun valore al nostro CV.
  3. La convinzione: per promuovere efficacemente le attività dell’ONP e attrarre nuovi sostenitori, dobbiamo essere noi per primi a credere in ciò che stiamo facendo, ad avere quella fiamma sempre accesa che ci consente di perseverare e trovare nuove strade anche dopo l’ennesimo “non mi interessa”.

Torno quindi alla considerazione iniziale:

quali sono i parametri di giudizio durante una selezione? Conta soltanto aver frequentato il Master X? O aver lavorato nell’Organizzazione Y?

A mio parere, un colloquio non dovrebbe solo accertare titoli, referenze o conoscenza dell’inglese. Per lavorare nel sociale è necessaria, soprattutto, una spiccata sensibilità: quella capacità di comprendere uno sguardo, di affrontare con eleganza le situazioni scomode, di ascoltare di più e parlare meno. Di raggiungere i traguardi prefissati in punta di piedi, commettendo anche errori e imparando da essi. Caratteristiche che, spesso, possono appartenere a chi non ha avuto la possibilità di lavorare in realtà strutturate, ma ha acquisito esperienza in contesti minori o affrontando prove dure nelle vita di tutti i giorni. Ottenendo buoni risultati.

Non credo sia il nome di una specifica ONP sul CV a definire la professionalità del candidato. Non so se riesco a rendere l’idea. Forse, avviando processi di recruiting più aperti e meno formali, si potrebbero scoprire particolari importanti che andrebbero oltre le competenze tecniche e che consentirebbero di valorizzare potenzialità inespresse e utili.

Infine: ho iniziato a fare volontariato all’età di 14 anni. Potrei raccontare mille episodi in cui, giovanissima, ho dovuto mettere alla prova le mie capacità, imparando molto e rafforzando il mio carattere. Peccato che, ai colloqui, nessuno mi abbia mai chiesto perché ho iniziato a interessarmi al sociale così presto, o quali criticità abbia riscontrato collaborando con piccole realtà di periferia, senza sostegni. Quali soluzioni abbia individuato e con quanti successi/insuccessi. Il più delle volte, interessa solo il Master X, l’esperienza nell’Organizzazione Y e la “fluente” conoscenza della lingua inglese. Richieste standard, spesso contrastanti con le realtà in cui effettivamente si dovrebbe operare. “Scusi, ma abbiamo candidati di più alto profilo”. Ok, grazie lo stesso. Continuerò a lavorare in silenzio, nelle realtà che nessuno vede, forse di “basso profilo”, ma con persone splendide che hanno studiato per svolgere questo lavoro e lo hanno sempre amato.

Anche quando non era di moda.

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GUEST POST. Thanks to: Chiara Casablanca, copywriter, digital PR, consulente di comunicazione sociale. Seguila sul suo blog. La trovi anche su Twitter all’indirizzo @chicasablan.

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