65025623 - text on road with boots background: you don't need a reason to help peopleAlberto Cuttica, stimato collega e amico, risponde alle mie ultime sollecitazione circa la figura del volontario nel ruolo di fundraiser. Il suo punto di vista nasce dall’esperienza maturata sul campo. Alberto propone una soluzione che comprendo e ritengo di rara e preziosa applicazione, almeno nel lungo periodo, ma una strada capace di rappresentare realmente cuore e spirito delle nostre organizzazioni anche in fase di strategia.

Ecco cosa propone Alberto. Buona lettura.

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Nel suo ultimo post, Elena è tornata su alcuni elementi che spesso molti di noi si trovano o si sono trovati ad affrontare nel dialogare con le organizzazioni nonprofit.

Sono “nodi” tipici dell’approccio iniziale al fundraising, quelli che – concordo con Elena – fanno intravedere una conoscenza ancora non matura del fundraising.

Nel post ne sono elencati tre (e a questi potremmo aggiungerne altri), che si riassumono sostanzialmente in uno, quello che definirei il “peccato originale”:

la fatica di farsi una ragione del fatto che “trovare fondi” implica l’utilizzo di fondi.

Il tema dell’investimento per avere risultati solidi e strutturati nel tempo è lento da digerire. Tuttavia uno dei tre punti credo sia tutto sommato degno di un approfondimento e contenga anche del positivo.

E’ la domanda, che anche a me è stata posta spesso:

al fundraising potrebbe essere dedicata una risorsa volontaria?.

Il positivo che ci vedo, e che mi fa piacere sottolineare quando devo rispondere, è che consente di prendere coscienza il valore che i volontari possono avere per il fundraising.

E’ ovvio che la risposta alla domanda – nel contesto citato da Elena – dovrebbe essere:

se intendete dire che pensate ad un volontario perché non costa nulla, no.

Tuttavia io di solito rispondo:

la cosa migliore per me è creare una squadra, anche piccola, in cui lavorino insieme figure retribuite e volontari.

Lo dico perché sono convinto che sia il modo per avere “quel qualcosa in più”. Se a monte non ci sono “storture di sistema” (tipo considerare i volontari come dipendenti a costo zero), è la via per unire due caratteristiche preziose per il fundraising:

la continuità e la responsabilizzazione che è giusto pretendere da chi è retribuito (e deve esserlo) per la sua professionalità con la motivazione e l’attaccamento ai valori che connota chi dedica il proprio tempo ad una causa, per il solo piacere di farlo.

Nell’esperienza pratica quando nell’attività di fundraising sono coinvolti anche i volontari, sia nella fase di pianificazione che in quella operativa, i risultati sono soddisfacenti e con una reciproca crescita delle diverse componenti.

Certo, nei casi fortunati tutte le caratteristiche coincidono nella stessa persona, ma sono convinto che il giusto mix dia un risultato superiore alla semplice somma delle parti.

Quindi, con l’accortezza di non pensare solo ai volontari, ricorrere anche a loro per il fundraising può servire ad avere una dote di partenza preziosa che non sempre (o non immediatamente) può essere garantita attraverso una retribuzione:

l’attaccamento, la conoscenza della causa, la credibilità verso i donatori, la disponibilità a “metterci la faccia” che di solito caratterizza il volontariato.

Un fundraiser interno allo staff, un volontario, un consulente esterno: sono figure diverse e con funzioni specifiche, che si integrano e non sono alternative l’una all’altra.

Considerarle sotto la sola lente del “quanto mi costa” può essere l’anticamera della delusione.

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Alberto_Cuttica——–

Guest post. Txs to Alberto Cuttica. Alberto si occupa di raccolta fondi dal 1999, prima come responsabile di staff interno alle organizzazioni e poi come consulente. E’ partner di ENGAGEDin, società di consulenza specializzata in fundraising, filantropia strategica e sviluppo organizzativo per il nonprofit.

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