MaskUn paio di post fa, scrivevo a proposito di identità. Nel farlo, ho trattato, in modo particolare, i concetti di omologazione, scarsa creatività, mediocrità, sterilità comunicativa che in qualche caso rappresentano la comunicazione sociale. Ma non solo. Torno a parlarne, grazie al prezioso contributo che Giampietro Vecchiato, comunicatore e docente universitario già ospite sul blog, mi ha inviato, a tal proposito, nei giorni scorsi.

Eccolo. Buona lettura.

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Nella società occidentale, il problema prioritario per le persone non è più legato alla sopravvivenza ma alla qualità della vita, che dipende, in larga misura, dalla qualità delle relazioni che l’uomo riesce a costruire con gli altri. Avere buone relazioni dipende dalla nostra capacità di comunicare con consapevolezza. Comunicare con gli altri ma anche con noi stessi poiché le due dimensioni sono strettamente legate. Paul Watzlawich, rilevando che non è possibile per qualsiasi individuo non avere un comportamento, assimilando il comportamento ad una forma di comunicazione ne deduce che è “impossibile non comunicare”. Per cui, in linea con questa impostazione, è definibile come comunicazione

qualsiasi evento, oggetto, comportamento che modifica il valore di probabilità del comportamento futuro di un organismo.

Quindi, il comportamento è comunicazione. Comunicazione è tutto ciò che, esplicitamente o implicitamente, incide – modificandoli o rinforzandoli – sugli atteggiamenti e sui comportamenti delle persone, siano essi attori trasmittenti o riceventi nel processo comunicativo. Tutte le forme attraverso cui una persona si pone in relazione con l’ambiente esterno fanno riferimento alla comunicazione.

Il ragionamento si può estendere anche ai gruppi, alle organizzazioni, alle imprese. Possiamo quindi affermare che qualsiasi azione aziendale, e quindi qualsiasi comunicazione, ha un impatto sulla sua reputazione, ovvero sulle percezioni e sulle opinioni (passate e presenti) dei suoi pubblici e quindi sulle loro aspettative.

  • Ma cosa succede quando l’immagine che trasmettiamo agli altri (l’identità sociale) non è coerente con la nostra realtà interiore (l’identità personale)?
  • Cosa succede quando mettiamo una maschera e quello che più conta è l’apparire e non l’essere?
  • Cosa succede quando le organizzazioni trasmettono un’immagine che, nel momento del contatto con i diversi pubblici, non coincide con quanto dichiarato o evidenzia una certo grado di ambiguità?

Quando la nostra immagine sociale – voluta, costruita e perseguita in contrapposizione con la nostra personalità – prende il sopravvento sulla nostra reale identità, perdiamo il contatto profondo con il nostro sé e quindi con gli altri. Perdiamo, in altre parole, la nostra autenticità/identità personale.

Nessuno può a lungo avere una faccia per se stesso e un’altra per la folla – afferma Nathaniel Hawthornesenza rischiare di non sapere più quale sia quella vera.

Se trasferiamo il ragionamento dalle “persone” alle “organizzazioni” la conseguenza è che se i pubblici percepiscono questo “tradimento” – e si tratta di un rischio alto, quasi inevitabile, nell’era di internet – lo vivranno come una manovra manipolatoria, propagandistica e poco responsabile.

La costruzione del sé dovrebbe sempre partire – come afferma Romano Guardini – “procedendo dall’interno verso l’esterno”, senza aderire acriticamente a un modello, ad una visione, a un ideale, spesso estraneo alla vera identità. Quando si moltiplica, con superficiali operazioni di immagine, il proprio sé, quando vi è, in altre parole, una scissione dell’io reale (nel caso delle persone) e dell’identità (nel caso delle imprese) da quello rappresentato, si può determinare una spirale di dipendenza dalla propria raffigurazione che porta prima all’inganno di sé e poi degli altri. Costruire o costruirsi un’immagine non coerente con la propria identità è quindi un’operazione ad alto rischio nel rapporto con gli altri e con i diversi pubblici, sia per i singoli che per le organizzazioni. In ogni contesto relazionale infatti, arriva sempre il momento della verità.

Se nel caso delle persone tale l’ambiguità può portare all’autoinganno, al disagio e alle difficoltà di comunicazione/relazione, nel caso delle organizzazioni (profit e non profit; pubbliche e private) la scarsa consapevolezza dell’importanza di questo “momento della verità” può far perdere valore all’organizzazione stessa. La comunicazione, la qualità delle relazioni e la reputazione sono infatti unanimemente considerate parte fondamentale – anche in termini economici e di valutazione – del valore di un’azienda/organizzazione.

E’ quindi necessario lavorare con serietà, impegno e costanza sulla mission, sulla vision e sui valori guida delle organizzazioni, inviando messaggi corretti, trasparenti e coerenti a tutti i pubblici, a tutti gli stakeholder.

Anche se i valori guida possono in parte cambiare nel tempo, una coerenza di fondo deve orientare un’impresa “sana”, la deve guidare in un mercato sempre più complesso e ipercompetitivo, la deve portare ad essere sempre responsabile di sé, delle proprie azioni e a impegnarsi, tramite scelte consapevoli, per raggiungere gli obiettivi che desidera raggiungere.

E’ evidente che per ciascun pubblico si possono e si debbono usare mezzi e stili comunicativi differenti. Ma è cruciale che la comunicazione ed il governo delle relazioni siano coordinate ed integrate. I messaggi non devono essere ambigui, casuali, poco trasparenti, ma devono rispondere, in modo quasi maniacale, alla nostra identità e ad una precisa strategia (sia all’interno che all’esterno). L’identità infatti non è altro che la possibilità di raccontare se stessi, la propria storia e trovare in essa un filo conduttore. In questo senso l’identità ha anche una forte componente narrativa che si rinnova costantemente in ogni nuovo racconto (incontro) e a seconda dell’ascoltatore. L’identità, e con essa la reputazione, si costruisce solo retrospettivamente come esito della narrazione e della qualità relazionale.

In conclusione, sia per le persone che per le organizzazioni il rischio maggiore che si corre nell’essere ambigui nel far conoscere la propria identità, è quello di aprire un conflitto con i diversi pubblici e, com’è noto, il conflitto non chiarito e non risolto degenera spesso in perdita di reputazione, scarsa attenzione, scarso interesse, indifferenza.

Martin Buber, già negli anni quaranta del secolo scorso, metteva così in guardia le persone dai rischi del conflitto (e noi lo trasferiamo anche alle organizzazioni):

Ogni conflitto tra me ed i miei simili deriva dal fatto che non dico quello che penso e non faccio quello che dico.

In ogni organizzazione esiste una molteplicità di ruoli, di appartenenze, di percorsi culturali, anche contrastanti: la sfida più grande a cui sono chiamate le organizzazioni è quella di integrarle sulla base di valori condivisi e del capitale relazionale che si vuole costruire e mantenere nel tempo. Dopo settant’anni l’avvertimento di Buber mantiene intatto tutto il suo valore e tutta la sua attualità. Anche per le organizzazioni e le imprese.

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Foto_Piero_1GUEST POST. Thanks to: Giampietro Vecchiato. Senior partner di P.R. Consulting srl, Agenzia di Relazioni pubbliche di Padova. Socio Professionista FERPI, Federazione Relazioni Pubbliche Italiana, ai sensi della Legge4/2013. E’ consulente di direzione ed esperto di comunicazione per le organizzazioni complesse. Relatore in convegni e formatore sia a livello universitario (Università degli Studi di Padova e Udine) che post universitario. E’ autore di diversi testi e saggi sulle relazioni pubbliche e sulla comunicazione. Seguilo su @pierovecchiato.

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