Qual è il ruolo vero del fundraiser? Non quello di cacciare i fondi, bensì quello di reperire le risorse e concorrere, attraverso il suo ruolo strategico e alle sue idee, alla sostenibilità dell’organizzazione nel lungo periodo, al di là del progetto del momento di cui momentaneamente si occupa. Quest’idea, sana e lineare, di fundraising è alla base della Teoria del Cambiamento. Christian Elevati, docente della materia nel corso intensivo alla raccolta fondi Startup Fundraising del prossimo autunno, chiarisce questi aspetti portandoci esempi quotidiani disarmanti in cui tutti, io per prima, ci possiamo riconoscere. Buona lettura.
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Quante volte, come fundraiser, ti sei sentito dire da chi si occupa di progetti nella vostra organizzazione o in quella di cui sei consulente (semplifico volutamente, ma so che sai di che cosa sto parlando): “tu pensa a raccontare le favolette strappalacrime per trovare i soldi che ci servono, che al lavoro duro, quello sul campo, ci pensiamo noi”?
Quante volte hai chiesto ai responsabili dei progetti di girarti del materiale utile per raccontare (valorizzare, capitalizzare come merita) quello che l’organizzazione fa, e ti sei trovato di fronte a formulari di progetto (quelli usati nei bandi) con terminologia ipertecnica quasi del tutto incomprensibile o alla letterina del partner locale che elenca i bisogni del suo territorio (stile “lista della spesa”)? Per non parlare del fastidio che i responsabili di progetto ti hanno comunicato a ogni tua richiesta, perché li interrompevate nel loro preziosissimo lavoro quotidiano in trincea… E quando i Direttori o i Presidenti ti hanno chiamato per chiederti di trovare i soldi che gli mancavano per fare questo e quest’altro o per coprire quel buco inatteso, come se tu fossi una sorta di cercatore di pentole d’oro:
ti sarebbe bastato seguire l’arcobaleno e le monete sarebbero saltate fuori, no? Lo so, sto generalizzando, ma dimmi la verità? Quante volte ti è capitato di trovarti in questa situazione?
E le incomprensioni e l’incomunicabilità all’interno delle organizzazioni non si fermano qui. Le ritroviamo anche, per esempio, fra Project Manager e Responsabili Amministrativi:
- i primi ritengono che l’amministrazione sia un ufficio al loro servizio, per raggiungere al meglio gli obiettivi dei progetti, anche forzando le rigidità formali ove necessario (che “far quadrare i conti è secondario quando si sta salvando il mondo”… );
- i secondi guardano con sufficienza ai PM, che non sanno nemmeno fare una pianificazione finanziaria e un controllo di gestione come si deve e senza l’Amministrazione sarebbero perduti…
Mentre i vincoli del finanziatore diventano l’idolo pagano cui sacrificare ogni flessibilità progettuale (quando invece, senza ovviamente sconfinare nell’illecito, basterebbe un poco di buon senso per venire incontro alle richieste dei PM, a vantaggio dei risultati di progetto).
E potrei andare avanti, anche tirando in ballo gli scollamenti e i compartimenti stagni che si incontrano (e contro cui si va a sbattere) fra i diversi livelli organizzativi, dal Consiglio Direttivo passando alla Presidenza e alla Direzione, fino ai responsabili d’area e allo staff. Isole che agiscono con obiettivi diversi e che spesso parlano anche linguaggi differenti.
Ma perché? Qual è il problema di fondo?
Le ragioni sono sempre molteplici, ma sulla base della mia esperienza posso dirti questo: al fondo c’è sempre una mancanza di strategie di medio-lungo periodo condivise a tutti i livelli e da tutta l’organizzazione. Nella maggior parte dei casi questo succede perché il modo in cui le organizzazioni crescono negli anni, avendo ormai lontano nel tempo il sacro fuoco che le fece nascere (quello dei “fondatori”), è spesso caratterizzato inevitabilmente da strappi, salti, stratificazioni progressive, irrigidimento burocratico. Aggiungi a questo il passaggio generazionale e il contesto attuale, particolarmente sfidante, e il gioco è fatto. Quando parlo della necessità di strategie “condivise” sto parlando di qualcosa di essenziale e di sostanziale: strategie che sono frutto di un processo davvero trasversale e partecipato, che ha visto il contributo dell’intera organizzazione e nel quale tutti (ciascuno per la propria parte di competenza e responsabilità) si riconoscono. Sto parlando della Teoria del cambiamento.
I primi stakeholders di una Teoria del cambiamento, infatti, sono quelli interni all’organizzazione, a partire dai soggetti trainanti (che potremmo chiamare “change agents”), persone già motivate e pronte a guidare un vero e proprio rinnovamento culturale, che rimetta al centro il senso del lavoro di tutti e il valore integrato delle differenti aree e competenze. Anche facilitando modalità di lavoro in team interdisciplinari che abbiano come faro la missione dell’organizzazione e gli obiettivi di medio periodo (concreti, pianificati, monitorati e misurabili).
Solo così il fundraiser ritrova il suo ruolo fondamentale, che è (dovrebbe essere…) perfettamente integrato ai processi di generazione del valore sociale delle organizzazioni.
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