Fare rete è un punto sofferente nel nonprofit. Si vorrebbe, la si anela ma poi la si rifugge. E così finiamo con il cadere in quella che in uno dei miei ultimi post ho definito la solitudine del nonprofit.
Sulla scia del suo precedente articolo e con l’autorevolezza dettata dal suo ruolo, Giampietro Vecchiato torna sul blog e ripercorre la storia del commercio in Italia, facendo emergere termini quali fiducia, premura e amicizia, valori basici in ogni relazione e a cui, per sua natura, il Terzo settore non si sottrae. Da qui, con forza, dipendono due tra i suoi asset principali a garanzia della sostenibilità: la cultura del dono e il coinvolgimento alla buona causa. Se è vero che la storia insegna, provo a riproporti questo bel pezzo di storia della comunicazione e delle imprese qui.
La morale? Ogni traguardo è il frutto di un percorso articolato in cui medesimi elementi si sono proposti e poi nuovamente riproposti. Nei giusti tempi, tutto è possibile. Basta lavorarci, con fiducia, premura, amicizia e un pizzico (bello grosso) di buona volontà.
Buona lettura!
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Fare rete è un atto rivoluzionario che cambia radicalmente il paradigma dell’impresa: nel “fare” impresa, “tra” le imprese, nel rapporto tra le imprese e le istituzioni, nei rapporti tra le imprese, il territorio e la comunità.
Se analizziamo e studiamo diversi casi di rete e di partnership (un approfondimento in Partnership, comunità e sviluppo locale, a cura di Veneto Responsabile, Franco Angeli) e prendiamo in mano una ricerca di McKinsey (Harvard Business Review, gennaio/febbraio 2010) capiamo bene che il problema della loro sopravvivenza e del loro successo non sta negli elementi formali e istituzionali (perlomeno non solo) come i contratti, i patti, le norme gestionali, o nella paura di sanzioni, ma quasi sempre in elementi intangibili.
La fiducia reciproca, innanzitutto
Se la molla della competizione e del rischio è meno importante di altri aspetti della società del business, significa che ci sono altri valori all’interno dei rapporti d’affari che consentono di tenere alta la probabilità di successo. Questa dimensione non può essere ignorata se vogliamo comprendere veramente i fondamenti di quella “rete di relazioni” che rendono possibili e regolari i rapporti di scambio, la collaborazione e l’instaurarsi di una spirale virtuosa di crescita e sviluppo, sia economica che sociale.
Come nella Venezia del ‘700 . Per comprendere e analizzare ulteriormente il fenomeno abbiamo fatto riferimento alla pubblicazione curata da Walter Panciera dal titolo: Fiducia e affari nella società veneziana del Settecento (Cleup). L’abbiamo letto e studiato in ottica di “rete” e utilizzato per evidenziare quegli aspetti che, da una parte, sono stati la forza della Repubblica di Venezia per quasi mille anni e, dall’altra, capire i limiti e le debolezze delle attuali reti e/o partnership d’impresa. Con l’obiettivo ultimo di comprenderne i fattori critici di successo. Il luogo: Venezia. L’epoca: il ’700. Poco prima delle codificazioni vincolanti e delle sanzioni giuridiche dell’età napoleonica, ma nel quadro di una sostanziale continuità di un millennio. La dimensione analizzata dal docente ell’Università di Padova è quella della società civile commerciale. In altre parole, i contratti e le partnership tra privati.
La ricerca ha evidenziato che a fianco di fonti formali (i cosiddetti “strumenti pattizi” che regolano rapporti di società tra le persone, le modalità contrattuali e i legami tra i soci; le modalità gestionali e contabili; il riparto degli utili ecc.) ci sono fonti “informali” che riguardano il rapporto fiduciario tra i diversi attori («El xe un omo attento, el xe un omo fedel» scriveva Carlo Goldoni). Un contratto non può, per sua stessa natura, prevedere e regolamentare esplicitamente tutta la sfera dei legami che si vengono a getti coinvolti. Veniamo così a scoprire che il sistema regolatore della Serenissima è costituito da codici morali, norme di comportamento e convenzioni: «Quelle virtù morali e quella disciplina civica che rendono gli uomini industriosi anche in mezzo al deserto» (anonimo veneziano del ’700).
I valori dietro al contratto
La ricerca di Panciera sulle ricorrenze (parole chiave) riguardanti il rapporto fiduciario ha evidenziato la presenza/citazione di valori e di standard di comportamento che vede ai primissimi posti la fedeltà e la fiducia, la diligenza e la puntualità, l’assiduità e l’impegno, la premura (anche verso il partner-socio) e l’attenzione, l’amicizia e l’amore («Siamo stati compagni di negozio e ci siamo amati come due fratelli», per citare sempre Goldoni).
Dall’incrocio di queste parole chiave emergono altri comportamenti “imputabili alle persone e non alle cose”: adottare sempre comportamenti prevedibili, corretti e cooperativi; definire ex ante le procedure per la risoluzione dei conflitti e delle controversie; avere “credito” (inteso come reputazione), “insieme indissolubile di solvibilità finanziaria e di virtù morali”; stabilire prima le procedure per la recessione del contratto (utilizzando la forma del concordato, del compromesso, dell’arbitrato); tassativamente escluso il ricorso al tribunale.
I patti “di” e “tra” società hanno innanzitutto l’obiettivo, nella Venezia del ’700, di costruire fiducia e quindi capitale sociale nella società, ovvero definire una dimensione etica degli affari. Il “credito” era inteso come “fedeltà verso i soci, il puntuale rispetto degli impegni assunti, una sensibilità affettiva all’interno dei rapporti d’affari, un’attenzione vigile nello svolgimento dei compiti, il rigore e l’assiduità nel lavoro quotidiano”. La condivisione non coercitiva di questo “codice etico” non scritto consentiva ampi spazi di autonomia; permetteva l’instaurarsi all’interno della società civile di forme di cooperazione, competizione e risoluzione dei conflitti, in buona parte indipendenti dalla sfera politica e giudiziaria.
La buona comunicazione alla base della società
Si tratta di valorizzare, in altre parole, le relazioni interpersonali e di mettere a frutto un capitale sociale che dei patti contrattuali costituivano la parte essenziale e i partner della rete devono comunicare all’interno e diffondere all’esterno la buona reputazione e la fama di correttezza dei sui membri («Non v’è società, dove non è comunicazione», Antonio Genovesi, 1769, Lezioni di commercio o sia d’economia civile). La rete, infatti, lavora bene se l’opinione pubblica (che i veneziani identificavano con “la piazza”) conferma tale reputazione, tale abitudine a mantenere la parola data.
Questi elementi, che sono alla base della rete di relazioni che la rete stessa tiene in vita con tutti i settori (sia economici che istituzionali) e con tutte le professioni presenti nella comunità, erano (e sono tutt’ora) la vera forza delle reti. A partire dall’etica degli affari intesa nel senso più largo, di affidabilità e credibilità personale, senso di responsabilità e personalizzazione dell’impresa.
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GUEST POST. Thanks to: Giampietro Vecchiato. Senior partner di P.R. Consulting srl, Agenzia di Relazioni pubbliche di Padova. Socio Professionista FERPI, Federazione Relazioni Pubbliche Italiana, ai sensi della Legge4/2013. E’ consulente di direzione ed esperto di comunicazione per le organizzazioni complesse. Relatore in convegni e formatore sia a livello universitario (Università degli Studi di Padova e Udine) che post universitario. E’ autore di diversi testi e saggi sulle relazioni pubbliche e sulla comunicazione. Seguilo su @pierovecchiato.
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