Come prima cosa, a te che che stai leggendo, buon 2024!
Inizio il nuovo anno con una riflessione che desidero sia breve, ma vedremo dove mi porterà la scrittura.
Prendo spunto dalla faccenda del pandoro-gate, così come qualcuno lo ha chiamato, per portare l’attenzione su tre punti prettamente legati al fundraising che non hanno avuto sufficiente visibilità, come era naturale che fosse, ma di cui, sono certa, avrai colto l’importanza.
Sulla questione, ho già avuto modo di esprimermi grazie all’opinione che Vita.it mi ha chiesto giorni fa. Se l’hai persa, puoi riprenderla su LinkedIn a questo link e magari lasciare un tuo commento per alimentare il dibattito.
Il primo aspetto arriva da quello che ritengo un luogo comune affiorato da più parti e che sono dell’opinione abbia senso di esistere solo fino a un certo punto: “la solidarietà si fa in silenzio”.
E chi lo dice? Andrò controcorrente, ma non sono così convinta che la solidarietà vada fatta, per forza, in silenzio. Sarà per la professione che svolgo, ma spirito di partecipazione e contaminazione sono elementi di stimolo nel dono. Si dona anche per emulazione e non c’è nulla di male, anzi.
Donare perché qualcuno l’ha fatto prima di te gioca su quella che ho chiamato elasticità del dono, ovvero la variazione della quantità di dono effettivo in considerazione degli stimoli esterni ricevuti più o meno attivamente.
Ricerche di mercato sul dono elaborate di GFK Eurisko prima e da Walden Lab poi, hanno ampiamente dimostrato che la base dei donatori si è contratta a partire dal 2007, portando la percentuale effettiva dei donors da 30 a poco meno del 20%. Questo significa che in Italia donano, di fatto, due persone su 10 per una serie di motivi su cui sono solita soffermarmi nelle mie aule e su cui noto sempre particolare interesse. Che siano poche o tante è relativo, ma quel che è certo è che non tutti donano.
Il lavoro sugli indecisi o sulle nuove leve di donatori diventa dunque fondamentale per lavorare sull’elasticità del dono perché, di fatto, il mercato a cui riferiamo è anelastico. Ma è chiaro che questo lavoro non può essere fatto in silenzio.
Il dono è una propensione: o ce l’hai per educazione, o ce l’hai per cultura, o per emulazione o non ce l’hai.
C’è poi un altro aspetto, subdolo, da considerare: non è detto che chi dice di fare solidarietà in silenzio effettivamente la faccia. Questo non significa “urlare” la propria generosità, ovviamente. Alla base però c’è un dato di fatto: se si dice di farla, la si fa. Punto. Diversamente si chiama opportunismo; in casi più gravi, speculazione.
Il secondo aspetto riguarda la solidarietà prodotta dall’azienda: un’impresa ha come scopo il profitto, “sennò nasceva ong”.
Che la questione abbia sollevato, o possa farlo, un velo di dubbio sulla bontà delle azioni promosse dalle imprese è innegabile. Diventa dunque molto importante mantenere la barra a dritta e continuare a comunicare in modo corretto le intenzioni.
Che sia chiaro: nulla di male a volere che la solidarietà prodotta possa portare un ritorno!
Un’azienda deve rispondere alla proprietà, agli azionisti, ai consumatori. Che trovi nel marketing sociale leva alternativa alla pubblicità classica, ben venga: l’importante è che sotto ci sia correttezza e coerenza. La reputazione è cosa sacra. A metterci la faccia e a trascinare in fondo tutto il bene fatto, la propria storia e integrità è questione di un attimo.
La CSR non si improvvisa e va gestita da persone con competenza che pensino e concorrano al meglio per tutte le parti in gioco: azienda, ente, consumatore.
Il terzo aspetto riguarda il ruolo dell’ente beneficiario che DEVE, scritto a caratteri cubitali, tutelare la sua immagine. Come? “Vigilando sul suo buon nome”.
Il dono è condizione necessaria, ma non sufficiente. Qui mi rivolgo agli enti che capita prendano sottogamba il loro ruolo, assecondando tutte le richieste, sebbene lecite, del sostenitore in cambio del denaro utile a mandare avanti i progetti. Deve essere chiaro che si può fare molto, ma ci sono dei limiti che vanno tenuti ben presenti, limiti che conosci solo se hai la competenza per valutarli ed elaborarli nel modo migliore.
Aggiungo: un ente, benché nella correttezza delle proprie azioni, non può – e non deve – sottostimare il valore del proprio brand ponendosi in una posizione secondaria rispetto a un terzo, che sia quest’ultimo pubblico o privato. Valorizzarsi e difendere il proprio buon nome, il proprio ruolo e reputazione, è alla base della costruzione della considerazione degli altri.
Quindi, vigilare sull’eventuale uso che gli altri fanno di noi deve essere un’abitudine. Diversamente, potremmo trovarci nella condizione di aver contribuito – seppur in assoluta buona fede – ad alimentare azioni che potrebbero poi dimostrarsi “discutibili”.
Quelli esposti sono tre punti, tre opinioni, che ritengo importanti e che esulano dal fatto in sé, ma che il fatto ha portato alla ribalta e su cui, in questo 2024, dovremmo probabilmente prestare un po’ più di attenzione.
Se vuoi, lascia qui sotto un tuo commento.
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