Ricordate il post in cui parlavo della visione nonprofit-centrica del Terzo Settore? Questa riflessione ha messo in moto un dibattito davvero interessante. Sia in rete che off line. Persone che non avrei mai pensato leggessero il mio blog, mi hanno contattata per portarmi la loro esperienza. Spesse volte per dirmi che c’è anche altro. A volte persino disagio.
Tra i diversi messaggi ricevuti, ho pensato di proporvi – previa autorizzazione – quello di Simona, una collega che ancora non conosco ma che mi auguro di conoscere presto, che dà una panoramica interessante sulla percezione della professione del fundraiser. E’ un quadro disincantato e tenace di una professionista vera. Ve lo propongo invitandovi a una riflessione:
(…) Mi capita negli ultimi mesi di prestare più attenzione alle questioni inerenti la comunicazione e la percezione del ruolo del fundraiser e, in generale, del tema del Fundraising. Entrando in contatto con “tipologie” differenti di persone in base alla loro provenienza professionale, ho notato una grande varietà di idee, a volte un po’ confuse, su quello che è il Fundraising e le persone che lavorano occupandosene.
E’ vero che, in generale, l’idea che si ha è che anche il professionista della raccolta fondi debba essere anche un po’ volontario. Come dire: se hai tanto tempo e tanta voglia da fare questa professione significa che puoi permettertelo. Ovviamente banalizzo, ma noto che manca un’idea del FR come settore professionale. Naturalmente la differenza di vedute è evidente quando si ha a che fare con target diversi (…).Ti riporto alcune tra le note prese negli ultimi 6 mesi:
- dirigente di una PMI che è in difficoltà e viene da me perché ha bisogno di fondi per ricapitalizzare l’attività;
- fondazione d’impresa in cui AD è il presidente che si rivolge a me perché non vuole mettere fondi aziendali nella fondazione, non riesce a trovare altre aziende che vogliano impegnarsi in tal senso e quindi pensa che io possa dargli una mano;
- presidente di una ONP che si rivolge a me per elaborare insieme una strategia di raccolta fondi, restando basito quando io gli chiedo l’indirizzo mail per l’invio del preventivo perché pensava fosse gratis;
- presidente di una ONP che approva il mio preventivo e l’attività ma il resto del consiglio direttivo dice che non ha tempo per le attività connesse (2-3 ore spalmate su 5 mesi di consulenza)… risultato: la ONP si è sciolta (pensa che – caso unico – questa persona voleva in ogni caso che gli fatturassi le ore… decisamente corretto!);
- presidente di un collegio universitario che mi ha tenuto 5 ore a parlare di come da me avrebbe voluto la reingegnerizzazione dei processi per arrivare ad una raccolta fondi (le cifre erano notevoli), mi proponeva un impegno su 2 anni a tempo quasi-pieno e, quando ha visto il mio preventivo, mi ha detto che non volevano comunque spendere più di 5-6mila euro;
- membro del consiglio direttivo di un’associazione che, durante una lezione e dopo aver fatto almeno 3 corsi sul FR, dice “ho capito, quindi il fundraiser è sostanzialmente il tesoriere di una organizzazione!…”
- membri del consiglio direttivo di una onp che ti dicono che il progetto costa x ma, siccome ci tengono tanto ad avere dei fondi, sono disposti a ridurlo alla metà… come se la questione fosse quella…
Queste sono le mie note: non credo di aver incontrato persone poco informate, semplicemente la cultura nel nostro Paese è questa. (…) Io credo che debba cambiare la cultura, l’approccio ai temi della raccolta fondi. Credo che sminuire da soli il proprio valore – magari praticando un costo orario inferiore anche a quello di una lavoratrice domestica (senza nulla togliere al valore professionale, naturalmente) – sia falsare il mercato.
La qualità professionale ha un costo, e credo valga lo stesso per i fundraiser come per altre categorie di professionisti.
Credo anche che per fare fundraising occorra essere preparati, esattamente con lo stesso tipo di background che si “pretende” dall’avvocato, o dal commercialista (…).
Come scrivevo in Professione NONPROFIT: il fundraiser e l’arte di saper chiedere. Un po’ per vocazione e un po’ per diletto, tutti possono chiedere ma non tutti sanno chiedere. La differenza è sostanziale. Dare valore al lavoro non è solo buona creanza. E’ un dovere. Se in più si sono investiti tempo, denaro, fatica per formazione ed esperienza, va riconosciuta la qualità del contributo apportato. Laddove vi sia naturalmente (è bene precisarlo).
Quella di Simona è un’esperienza di vita ma sono dell’idea che rappresenti sintesi e sentore condivisi. Solo parlandone e condividendo esperienze si arriva a fare la differenza. Non credete? Mi piacerebbe conoscere il vostro pensiero.