Se il nonprofit rappresenta il 4,3% del Pil, un motivo ci sarà.
Giunge così, mai a caso si intende, un commento al mio precedente post che sintetizza il senso di profonda frustrazione vissuto da molti colleghi e che stringe come in una morsa l’evoluzione del sociale e delle sue professionalità.
Nel giorno di primavera, anche se leggo in ritardo, il tuo post è un bel regalo. Poi però, come il tempo in questi ultimi giorni, sembra che la primavera non ci sia più e le nubi minacciose tornano a coprire le belle “intenzioni”. Condivido punto per punto – come non potrei – ma torno a dire che purtroppo l’ostacolo maggiore è far comprendere a le ONP la centralità di alcuni dei tuoi punti. Comunicare ad esempio! Ma soprattutto il sapersi dare tempo e non ambire al risultato immediato che spesso e volentieri si dimostrerà effimero nel tempo…. !
A scrivere Roberto, comunicatore di professione. Come lui, sono in molti a vivere il disincanto di un Settore che amano ma che vorrebbero diverso. Non nel cuore naturalmente, ma nella testa. La realtà dei fatti è ben altra cosa – sembra concludere – e con i buoni propositi non si va lontano.
Quella di Roberto è una storia molto comune. E trasversale aggiungerei.
Trovo sia indiscutibile che il Terzo Settore occupi – da sempre ma, in modo particolare, in questo preciso momento storico – un ruolo di primo piano nello sviluppo del nostro Paese. E questo sotto diversi aspetti: di produzione, di occupazione, di valore, di morale. Alla luce di ciò non vedo perché non sradicare vecchi stereotipi che ci ancorano a ruolo di comparse, togliendoci da dosso abiti che ormai ci stanno stretti ma che, purtroppo, ci tengono anche al caldo nelle nostre convinzioni.
Ecco alcuni comportamenti usuali su cui varrebbe la pena riflettere e sui quali intervenire. Molto semplici:
- Guardare al Mercato in modo un po’ più strategico e meno autoreferenziale. Riproporsi ad esso con obiettivi sempre uguali pensando di fare la differenza produce ridondanza. E fatica. Una piccola analisi di quel che già c’è e di come è mette al riparo da possibili insuccessi e dall’inefficacia.
- Pensare in termini di network. Mettersi insieme ha un triplice vantaggio:
- si razionalizza (a ognuno il proprio);
- si ottimizza (l’esperienza dell’altro insegna);
- si fa massa critica (insieme si è più forti e si conta di più, senza alcun dubbio).
- Prima di fare, ci vuole un piano del fare. Ovvero, un piano di fattibilità. Eh già. Il Terzo Settore non è esentato dal fallimento eventuale. Meglio fare i conti prima.
- Smettere di nascondersi dietro il termine nonprofit per coprire eventuali pecche organizzative o giustificarsi in caso di fallimenti. Non si fa. E’ brutto e poco professionale. Se si fa una cosa, tanto vale farla bene. Altrimenti, meglio non farla.
- Avere personale dipendente non è un tabù. Il nonprofit produce e nel produrre produce anche posti di lavoro. Non c’è nulla di male e non si porta via nulla a nessuno, tantomeno alla causa di cui, invece, un lavoratore è parte integrante. Allo stesso modo, non c’è nulla di male a che le retribuzioni relative siano eque e commisurate ai valori del Mercato e al valore che la persona crea e porta all’organizzazione.
Il problema, a mio modo di vedere, sta sempre lì, una cultura del nonprofit radicata e forse fuori moda che frena l’evoluzione dell’intero settore; che vuole e colloca il Terzo Settore ai margini di un Mercato che si muove e produce; un nonprofit che si arrocca a schemi mentali desueti e ormai controproducenti.
Ti lascio con una domanda molto semplice e mi piacerebbe sapere cosa ne pensi, in tutta onestà: c’è davvero la volontà di cambiare o tutto questo darci un gran da fare, tutto sommato, è solo un atto dovuto fine a se stesso? Perché oggi più di ieri, come cantava il grande Enzo Jannacci nel 1980, per fare quello che facciamo “ci vuole orecchio”.
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