C’è una legge dell’economia, nota come la legge di Gresham, che recita: “La moneta cattiva scaccia quella buona”. Un principio che nasce dalla circolazione di valute di diverso valore e che, sorprendentemente, si presta bene anche a leggere alcune dinamiche del nostro lavoro nel fundraising. Perché, al netto di cifre, strategie e strumenti, anche nel nostro settore, le cattive abitudini finiscono per prendere il sopravvento. E quando succede, è molto più difficile costruire con lucidità e fiducia.

Non parlo tanto (o solo) della vecchia dicotomia tra costo e investimento, che ormai è entrata nel nostro linguaggio comune. Sappiamo che spendere per crescere, formarsi, comunicare, progettare, è un investimento. Ma sapere una cosa non significa automaticamente agire di conseguenza. La fatica sta tutta lì: nel passaggio dalla consapevolezza all’azione.

E spesso, quel passaggio è bloccato proprio dalle cattive abitudini. Dai “si è sempre fatto così”. Dalla paura di cambiare, ma anche dalla comodità del già noto. Dal fatto che, in fondo, è più semplice restare dove siamo, anche se quel posto non ci porta da nessuna parte. La moneta cattiva, in questo caso, è la resistenza passiva. L’abitudine che non apre. L’approccio corto che spegne sul nascere ogni visione di sviluppo.

E quando a prevalere sono le cattive abitudini, a farne le spese sono proprio le pratiche buone. Quelle innovative, quelle che chiedono impegno, quelle che non danno risultati immediati ma che promettono, nel tempo, crescita reale. Ecco perché questa legge ci riguarda. Perché ogni volta che ci accontentiamo del minimo, che sottostimiamo il valore di un investimento ben fatto, che “tiriamo avanti” senza cambiare passo, rischiamo di svendere il potenziale della nostra organizzazione.

Questo vale anche per un tema che torna spesso: quello della gratuità. Nel fundraising — e nel nonprofit in generale — ci si scontra spesso con l’idea che tutto debba essere gratuito. Come se gratuito fosse sinonimo di buono, o addirittura di etico. Ma gratuito non significa “senza valore”. E il lavoro gratuito non è per forza un lavoro giusto.

Soprattutto se non è riconosciuto. Soprattutto se non è accompagnato da una restituzione, da un impegno reciproco, da un’idea chiara di scambio. Altrimenti diventa solo svilimento. Di chi offre e di chi riceve. Perché se abbassiamo la soglia della pretesa, finiamo per abbassare anche i risultati. E con i risultati, si abbassa la motivazione, la qualità, l’energia. Sembra un piccolo risparmio, ma alla lunga diventa una perdita secca.

La verità è che per costruire qualcosa di solido — nel fundraising come in qualunque strategia di sviluppo — serve fiducia. E la fiducia richiede investimento. Tempo, risorse, attenzione, cura. Non ci si arriva gratis. Non ci si arriva da soli. E non ci si arriva senza passare da una scelta precisa: quella di smettere di tollerare la moneta cattiva.

Non è facile. Chi lavora nel nonprofit lo sa. Ogni scelta ha un costo. Ogni cambiamento chiede fatica. Ma come dice il detto popolare, chi non risica, non rosica. E allora forse è il momento di rischiare un po’ di più. Di smettere di tenere in tasca solo ciò che costa poco e iniziare a riconoscere — e pretendere — ciò che vale.

Perché se vogliamo risultati diversi, dobbiamo cambiare il modo in cui ci muoviamo.
E questo richiede sguardo. E responsabilità.
Ma soprattutto: la volontà di non farci più scacciare dalla cattiva moneta delle cattive abitudini.

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