Quello delle metriche nell’imprenditoria sociale è un argomento che mi sta coinvolgendo molto ultimamente. Valutare il modo in cui i comportamenti adottati impattano e hanno conseguenze nel medio e lungo periodo su stakeholder e contesti è essenziale nel nostro lavoro. Ma spesso, purtroppo, questo non avviene. Per contingenza o per dimenticanza, il nonprofit fatica a stare dietro a questo processo, perdendo opportunità di crescita che solo un’analisi attenta può dare. Ma questo costa.
A parlarcene, ho invitato Christian Elevati, collega con una lunga esperienza in materia. Sono certa troverai molto interessante quanto leggerai. L’invito, come sempre, è a raccontare le tue esperienze e, perché no (!?), porre domande a cui l’autore volentieri darà risposta. Buona lettura.
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Il tema della valutazione dell’impatto sociale nell’ambito del Terzo settore è di estrema attualità. L’importanza di valutare gli outcomes (e non solo gli outputs), cioè il reale cambiamento promosso attraverso la propria attività nella comunità in cui si interviene, è oggi sottolineata da persone e negli ambiti più diversi. Parlare di cambiamento “reale” significa uscire dalla logica autoreferenziale nella quale, in buona sostanza, “ce la si canta e ce la si suona da soli”. Misurare il numero di attività svolte (corsi, conferenze, assistenze domiciliari…), i “prodotti” realizzati (aule costruite, pubblicazioni, pozzi…) e il grado di soddisfazione dei beneficiari non basta più. Occorre dimostrare in modo trasparente e verificabile come l’azione messa in campo abbia modificato concretamente (si spera in meglio… ) la vita delle persone, l’area di intervento o il sistema di welfare nel quale la nostra realtà ha investito tempo, risorse e finanziamenti.
La valutazione dell’impatto sociale ha visto il suo massimo sviluppo in area anglosassone, che per tradizione (e anche con alcuni eccessi…) ha sempre prestato massima attenzione al tema. Non a caso è da quell’area che abbiamo mutuato alcune metodologie e terminologie come SROI – Social Return on Investment e Theory of Change.
Da alcuni anni, infatti, anche in Italia numerose realtà sia in ambito nonprofit che for profit se ne stanno occupando a diverso titolo, tramite ricerche, sperimentazioni, policy paper, corsi di formazione, seminari dedicati. Solo per citarne alcune (ma il numero è decisamente più ampio): il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali dell’attuale Governo, la G7 Social Impact Investment Taskforce (il cui Advisory Board Italiano è Giovanna Melandri di Human Foundation), Fondazione Cariplo, Sodalitas, Fondazione Lang Italia, Fondazione Zancan, Banca Prossima, Consorzio Nazionale CGM, IRS-Istituto di Ricerca Sociale, UBI Banca.
Sono nati master universitari – che non possono certo sostituire l’esperienza sul campo, ma che possono fornire strumenti molto utili – con percorsi di approfondimento dedicati a questo ambito in tutta Italia. Fra quelli di più alto livello (e costo…) si segnalano quelli dedicati all’impresa sociale della Bocconi e di Altis, l’Alta Scuola Impresa e Socialità dell’Università Cattolica, unico membro italiano dello Sroi Network.
Anche i media iniziano a parlarne, soprattutto quelli con una sensibilità al settore. Fra gli articoli più recenti:
- Avvenire, “Il bene si può misurare: l’ultima sfida del nonprofit”
- Vita, “Trasparenza e open data i motori dell’innovazione sociale”
Come evidenzia l’articolo dell’Avvenire, inoltre, “la Commissione europea ha fissato uno standard per misurare gli impatti di imprese a carattere sociale, che sarà determinante per accedere agli 86 milioni di euro stanziati dal 2014 al 2020 dal nuovo programma Employment and Social Innovation (EaSI) e agli European Social Entrepreneurship Funds (EuSEF), i fondi dedicati all’impresa sociale”.
La valutazione d’impatto sociale è anche uno dei punti cruciali della legge di riforma del Terzo Settore attualmente in discussione (nel disegno di legge delega sulla riforma del Terzo Settore si parla dell’impresa sociale come di un soggetto “avente come proprio obiettivo primario il raggiungimento di impatti sociali positivi misurabili, realizzati mediante la produzione o lo scambio di beni o servizi di utilità sociale”). Alcune Provincie toscane si sono già dotate di un “sistema modulare di valutazione” condiviso d’impatto sociale, dedicato alla Pubblica Amministrazione, al privato sociale e tutte le realtà impegnate nel welfare locale.
In Italia, infine, il tema della valutazione rappresenta una delle aree di novità della nuova Disciplina generale sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo (Legge 125/2014) e ritorna in numerosi articoli. È soprattutto la Direzione Generale per la cooperazione allo sviluppo (Art. 20, Comma 2), che si occuperà di “valutazione dell’impatto degli interventi di cooperazione allo sviluppo e verifica del raggiungimento degli obiettivi programmatici, avvalendosi, a quest’ultimo fine, anche di valutatori indipendenti esterni, a carico delle risorse finanziarie dell’Agenzia sulla base di convenzioni approvate dal Comitato congiunto di cui all’articolo 21”.
Tutta questa attenzione alla valutazione d’impatto probabilmente si può attribuire a due fattori principali: da un lato, la crisi economica (di un intero sistema), che ha spinto tutti i soggetti a vario titolo coinvolti (Pubblica Amministrazione, finanziatori, privato sociale, realtà profit) a chiedere maggiore efficacia nelle spese e che questa efficacia fosse dimostrabile in modo trasparente e condiviso; dall’altro, una maturazione complessiva dei principali attori, molto centrata sull’accountability agli occhi sia dei finanziatori sia degli stakeholders e che si sta lentamente ma progressivamente muovendo verso una multistakeholder strategy, dove il privato for profit avrà un ruolo sempre più forte.
Il ritardo che scontiamo in Italia in questo ambito è sotto gli occhi di tutti (se si escludono poche realtà di eccellenza), così come l’urgenza di definire metodologie trasparenti e condivise di valutazione (ma con strumenti e attori specifici, localizzati). Se i finanziamenti (si pensi anche a tutto l’ambito della finanza privata e alle Pubbliche Amministrazioni che si stanno orientando sui cosiddetti social impact bond) saranno collegati alla capacità di dimostrare il reale cambiamento prodotto in termini di sviluppo, welfare e risparmio (a livello di costi economici e sociali), dall’altro occorrerà però che la valutazione possa dotarsi di risorse (economiche e umane), metodologie e strumenti adeguati a un obiettivo così strategico.
La complessità del tema e la sua urgenza generano tutta una serie di domande a cui non è affatto semplice rispondere, ma che occorrerà affrontare se non si vuole trasformare la valutazione d’impatto sociale in qualcosa di inutile, eccessivamente oneroso, imposto (calato dall’alto) e, alla fine, dannoso.
Alcune domande possono aiutare a coglierne la complessità:
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Chi lavora per migliorare le condizioni di vita di altre persone ha a che fare innanzitutto con relazioni e “beni immateriali”, che spesso esplicano i loro risultati solo nel medio-lungo periodo: come è possibile misurare in modo sensato e in tempi utili questa tipologia di cambiamento? Attraverso quali strumenti e indicatori?
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Chi finanzia la valutazione d’impatto sociale? Quale percentuale del budget deve esserle dedicata?
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Chi forma i “valutatori”? Sulla base di quali teorie e metodologie?
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Ogni realtà (pubblica, del privato sociale o for profit) ha caratteristiche peculiari e si muove su territori con caratteristiche uniche: come è possibile giungere a metodologie e indicatori di valutazione condivisi a livello regionale, nazionale ed europeo? Sono sufficienti criteri quali “validità”, “comparabilità”, “economicità” e “trasferibilità”?
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Chi è responsabile della valutazione? Che ruolo hanno gli stakeholders nella definizione (focus, priorità) e nella valutazione degli obiettivi e degli indicatori specifici di ciascun progetto o programma valutato?
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Se una valutazione di impatto sociale evidenziasse risultati negativi, quali sarebbero le conseguenze sulle realtà valutate?
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Di chi è la responsabilità del non raggiungimento degli obiettivi di cambiamento? Esistono vincoli, fattori esterni e di contesto rilevanti?
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Se un progetto non ha uno storico, come è possibile stimare preventivamente l’impatto che tale progetto andrà a realizzare? I “big data” e gli “open data” possono aiutare?
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Quale sinergia fra una valutazione d’impatto sociale e le normali attività di monitoraggio?
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La valutazione di impatto sociale può migliorare le scelte strategiche di una realtà del Terzo settore, di un’impresa for profit o della Pubblica Amministrazione dal punto di vista della programmazione, del posizionamento e della raccolta fondi? Se sì, a quali condizioni?
Lungi dal cercare soluzioni semplici o preconfezionate, occorrerà un lavoro (in parte già iniziato) di sperimentazione e di condivisione di processi e risultati, nel quale ognuno dei soggetti territoriali coinvolti, dal livello locale a quello internazionale, dovrà essere chiamato a fare la sua parte
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Thanks to: Christian Elevati. Consulente di realtà del Terzo Settore (ONG, Cooperative sociali, Associazioni) accomunate dalla promozione dell’inclusione sociale, dei diritti umani e dell’educazione. Si occupa da oltre 17 anni di progettazione, fundraising (big donors), advocacy, project management, valutazione (ultimamente con particolare attenzione allo SROI), Global Citizenship, networking e relazioni istituzionali, ambiti fra di loro fortemente interconnessi. Per contatti: it.linkedin.com/in/christianelevati/ e @chriselevati. Fonte: Info-Cooperazione.it.
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