Era il 1999. Aldo Cernuto e Roberto Pizzigoni, al tempo direttori creativi esecutivi di Pirella Lowe, nota agenzia pubblicitaria, e oggi partner dell’omonima Cernuto Pizzigoni & P., uscivano con Il mal d’idea, libro in cui i due pubblicitari raccontavano il modo in cui nascono le idee nella mente di un creativo:
Cosa concilia la risata o la lacrima di uno spettatore con l’acquisto di un prodotto? – si chiedono – Le idee. E se far ridere è difficile, trovare idee per vendere è molto peggio. Bisogna patire, penare, smaniare, soffrire, fino quasi a star male. Questo (…) è il “mal d’idea”.
Nel 1956, Joy Paul Guilford, psicologo statunitense, presenta Struttura dell’intelletto, modello multifattoriale innovativo in cui descrive due tipi di “intelligenza”: una più “sequenziale” e riconducibile al pensiero “convergente” e una meno “logica” che lo psicologo chiama, appunto, “divergente”. A scriverne ultimamente su Wired, Giovanni Lucarelli, sociologo e scrittore, a proposito di Insurgent, film del secondo episodio della trilogia Divergent di Veronica Roth. Scrive Lucarelli:
Il pensiero convergente è un modo di procedere sistematico che, tramite una serie di passaggi (basati su schemi di ragionamento consolidati), ci porta al risultato finale. È quello che attiviamo, ad esempio, quando applichiamo formule matematiche o procedure standard. Il pensiero divergente, invece, cerca di stimolare delle nuove prospettive, di superare gli schemi di ragionamento ordinari e di spingere la mente in direzioni inesplorate. Questo consente di generare una varietà di ipotesi e di soluzioni che prima non esistevano. Lo applichiamo quando dobbiamo risolvere un problema o quando ci troviamo davanti ad un imprevisto.
Ecco cosa penso. La mente lavora in mille modi diversi. Le nostre abilità sono sconfinate, questo mi è ben chiaro da sempre. Nel mio lavoro quotidiano, cerco di trovare soluzioni nuove a cose che non sempre lo sono. Cerco una chiave di lettura che mi rappresenti e che meglio rappresenti le organizzazioni che si affidano alle mie cure, per così dire. Quanto propongo non è facilmente modulabile e cambia di continuo. Ed è questo l’aspetto che amo in modo particolare nel mio lavoro: sapere che esistono chiavi di lettura diverse e che mai una si sovrappone all’altra. Nel corso di questi anni, ho affrontato a più riprese il tema dell’insight e del processo creativo e sono sempre più convinta che il fundraiser non ne sia estraneo. Anzi.
L’abilità del fundraiser sta nel trovare soluzioni nuove a situazioni complesse; nel porre la questione al centro, analizzandola dai diversi punti di vista e nel lasciarsi andare senza pregiudizi.
Rileggo ora la definizione che ho dato del fundraiser ormai più di cinque anni fa, ancor prima di lanciare il blog:
Un fundraiser è un creativo votato al marketing, un paroliere con la passione per l’economia, una persona etica orientata alla massimizzazione dei risultati per una buona causa.
Al pari di un creativo, un bravo fundraiser deve “divergere” se vuol fare la differenza ma, allo stesso tempo, deve saper “convegere” per stare sul pezzo e per non perdere di vista il progetto di missione. L’augurio per noi tutti è di trovare il giusto equilibrio tra ciò che converge e ciò che diverge. E, in particolare, che il mal d’idea, quello sano, creativo e produttivo, ci colga preparati e pronti a coglierlo a piene mani. —————- Articoli correlati: