
L’intelligenza artificiale non è il nemico. È lo specchio. E il modo in cui la usiamo dice molto di noi.
C’è un tema che oggi sento diventato imprescindibile, anche se ancora scomodo da affrontare apertamente: l’uso dell’intelligenza artificiale nel terzo settore.
Partiamo da un punto chiaro: tutti, chi più chi meno, utilizziamo ormai l’intelligenza artificiale. È una realtà, non più una possibilità. E se ancora fingiamo di non farlo o peggio, puntiamo il dito contro chi lo fa apertamente, stiamo semplicemente negando l’evidenza.
Non è il mezzo il problema, ma il modo. Non è la tecnologia che snatura, ma l’uso superficiale e privo di consapevolezza che ne facciamo.
Come al solito, a essere demonizzato è il mezzo:
il denaro è lo sterco del diavolo; chi usa strategie di marketing è perché vuole fregarti; se lo fa l’IA, tu che fai!? E via di questo passo.
Frasi fatte; luoghi comuni che lasciano il tempo che trovano (cosa poi mai vorrà dire questo detto ancora me lo chiedo…). Eppure, quanto c’è di vero in queste convinzioni?
Usare l’intelligenza artificiale esclusivamente inserendo un prompt e attendendo risposte standard è un approccio sterile. Certo, può dare risultati rapidi e magari soddisfacenti sul piano formale. Ma il rischio è quello di fermarsi proprio lì: all’apparenza. Senza che da ciò nascano risultati concreti e stabili.
Per quanto umana possa apparirci, l’IA rimane uno strumento. Se la sostanza manca, l’intelligenza artificiale non potrà colmare questo vuoto.
Diverso, profondamente diverso, è utilizzarla con competenza, con metodo, con visione strategica. E questo approccio parte necessariamente da una esperienza acquisita, assimilata negli anni, provata sul campo. Frutto di errori interminabili e spesso mai raccontati apertamente.
L’intelligenza artificiale diventa allora un potente amplificatore delle nostre capacità, accelerando i processi e aumentando la nostra efficacia. Non sostituisce il nostro pensiero, ma lo valorizza. Senza metodo e competenze, l’intelligenza artificiale rimane una scatola vuota, incapace di generare valore reale e duraturo.
Criticare o bandire l’uso dell’intelligenza artificiale è antistorico. Pensiamo per un momento all’evoluzione della tecnologia nel corso della storia. Prima lavoravamo la terra con le mani, poi abbiamo creato strumenti che hanno semplificato e migliorato il nostro lavoro. Dalle mani nude siamo passati agli attrezzi, poi alle macchine agricole, fino ai trattori moderni. Ogni nuova tecnologia ha portato progresso, non ha annullato il nostro lavoro, ma lo ha reso più efficace e sostenibile.
Lo stesso vale per gli strumenti digitali. Quando è arrivato Word, non abbiamo smesso di scrivere: abbiamo solo smesso di scrivere a mano. Il pensiero non si è spostato dalla mente alla macchina. Ha solo guadagnato velocità, ordine, precisione.
L’intelligenza artificiale è un altro di questi strumenti. Potente, sì. Ma pur sempre uno strumento.
La paura che possa sostituire il lavoro umano nasce da un equivoco di fondo: ovvero che possa sostituire l’umanità del pensiero, o, per meglio dire, la sua anima.
Se delego alla macchina il mio pensiero, otterrò certamente un risultato, ma sarà un risultato artificiale, e il suo spessore artificioso: un’azione fredda, che non lascia traccia né memoria.
Siamo in un limbo: in quel preciso momento di passaggio da un prima a un dopo in cui manifestare apertamente uno status ci provoca imbarazzo perché ancora non del tutto assimilato; ma allo stesso tempo, fingere che non esista, è inutile: l’IA è ovunque ed è del tutto evidente quando c’è dietro un intervento artificiale. Lo cogliamo apertamente e lo vediamo ovunque; talvolta è così sfacciata che davvero mi chiedo come sia possibile che ancora ci si stupisca. Serve onestà, trasparenza e consapevolezza.
È ora che anche il terzo settore faccia pace con questa realtà. È ora di iniziare una conversazione aperta e onesta, di superare il tabù e cogliere le opportunità che ci offre; affiancando, si badi bene, un pensiero critico e un’analisi approfondita, oltre che a un intervento concreto e necessario.
Perché l’intelligenza artificiale, quando usata bene, non minaccia il nostro lavoro: lo libera, lo eleva, e lo rende ancora più umano.
Almeno per il momento.