Spesso – con lo sguardo ossessivamente rivolto alle contingenze più immediate – tendiamo a sottovalutare (o, peggio, a dimenticare) quelle potenzialità più nascoste che ogni metodologia sottende. La stessa cosa avviene anche per il volontariato aziendale, complice un accreditamento non ancora pienamente compiuto, soprattutto tra le piccole e medie organizzazioni, profit e non profit. Di questo tratta questo articolo scritto da Stefano Martello e Salvatore Rimmaudo, co-autori del volume Volontariato Aziendale Multicanale, e anche di questo tratterà il corso di 6 ore online sul Volontariato Aziendale dei prossimi 18 e 25 ottobre prossimi. Buona lettura.

Al netto di quelle evidenze organizzative e progettuali già acclarate e dibattute (e su cui, comunque, vale la pena di battere ossessivamente il ferro), il volontariato aziendale esprime, infatti, dei movimenti che si incastrano magicamente nella cornice del quadro di riferimento generale.

Pensiamo, in tal senso, al valore relazionale, e per certi versi reputazionale; alla possibilità – per organizzazioni così diverse, negli scopi come nelle azioni – di incontro e di contaminazione, nel pieno rispetto delle metriche e delle aspettative personali. E pensiamo, con eguale intensità, alle responsabilità e agli oneri che questa semplice enunciazione comporta in fase applicativa. Per il Terzo settore, e in particolar modo per le piccole medie organizzazioni, si tratta di una possibilità preziosa di uscire da una zona di comfort per misurarsi con una licenza ad agire ancora più responsabilizzante rispetto al passato. Composta da programmi che, in quanto tali, devono essere pensati, pianificati e declinati in una cornice temporale e progettuale precisa e definita. Per poi essere misurati, nel bene e nel male, in una ottica di crescita costante nel tempo. È già questa una novità che impone attenta consapevolezza nell’individuazione e nell’allocazione delle risorse e in una fase di confronto che non può e non deve prescindere dall’ascolto delle altrui aspettative.

Insomma, non basta più essere buoni. Dobbiamo imparare ad essere analitici, tenendo conto di valori identitari che non sono parte integrante del nostro patrimonio e che, eppure, entrano nelle dinamiche relazionali in gioco.

È anche giusto considerare che il ritorno può essere consistente; e non ci riferiamo al semplice dividendo di una singola esperienza portata a termine quanto, piuttosto, ad una alleanza strategica e continuativa, nel tempo, nelle condotte e nelle comuni riflessioni.

È questo l’obiettivo naturale a cui mirare, non solo e non tanto per dare tranquillità e agio alle singole azioni già realizzate e da realizzare ma (soprattutto) per confermare il ruolo e la presenza del Terzo settore nella cornice di una dinamica relazionale sempre più equilibrata – nella divisione di compiti e mansioni – e dunque paritaria e condivisa tra i due ambiti.

Non cercare questo, con tutte le proprie forze intellettuali e operative, significa condannare il volontariato aziendale ad una presenza incostante e provvisoria, limitata dalle dimensioni organizzative e sempre troppo costretta dai vincoli di un bisogno contingente che, in più, appartiene solo ad una delle due forze in campo.

Una ipotesi (e a voler essere un po’ cattivi, un presente) che danneggia non solo il Terzo settore ma anche il Profit, privato di un interlocutore che gode ancora di una fiducia trasversale e diffusa, alimentata dai tanti e dalle tante che scelgono o tentano la concretezza sul territorio di appartenenza.

 

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