
In quest’ultimo scorcio di agosto mi sono fermata a riflettere sulle ragioni che, tanti anni fa, mi hanno spinta a intraprendere questa professione. Una professione tanto affascinante quanto complessa. E ancora oggi, per molti, difficile da spiegare. Spesso incomprensibile.
Mi sono chiesta quali siano le qualità che accomunano chi sceglie di fare questo mestiere. Quelle che ci fanno sentire parte di una comunità professionale orgogliosa, che sa riconoscersi “fundraiser nel midollo”.
Lo ripeto spesso: il fundraiser non è un procacciatore di fondi. Non è qualcuno che viene assunto solo per “fare cassa”. È tanto, ma tanto di più.
Mi piace dire, senza ritenere esagerato quanto affermo, che il fundraising è, a tutti gli effetti, una delle professioni intellettuali più difficili. Perché?
Perché un fundraiser deve compiere un esercizio raro e prezioso: dare voce a una causa che spesso non tocca direttamente la vita di chi è chiamato a sostenerla, ma che porta in sé un valore sociale più grande. Un valore capace di generare senso di appartenenza, di orientare energie diverse verso una direzione comune, e di cambiare davvero le cose. Una persona alla volta. Una causa alla volta. Fino a incidere, se si pensa (molto) in grande, persino sul destino del mondo.
Ok, torno con i piedi per terra, sebbene ci creda davvero.
Il fundraising non è solo tecnica, dunque, ma non è nemmeno solo passione. È un mestiere che chiede equilibrio, metodo, visione. Ma anche, e soprattutto, una grande dose di umanità.
E ti deve nascere dentro. Come già scrivevo più di dieci anni fa: uno non fa il fundraiser, uno è fundraiser. E sono due cose molto diverse.
Ecco allora le cinque qualità che, secondo me, non possono mancare. Per ciascuna, un “do” e un “don’t”, nati dall’esperienza quotidiana e dal confronto con i tanti colleghi negli anni.
1. Visione
Un fundraiser non guarda solo alla campagna in corso. Guarda al percorso nel suo insieme.
- DO: tieni sempre lo sguardo sul lungo periodo. La raccolta fondi è sostenibilità, non solo cassa.
- DON’T: non ridurre tutto al risultato immediato. Senza visione, il fundraising si spegne in fretta.
2. Ascolto
La raccolta fondi non è una transazione. È una relazione. E le relazioni vivono di ascolto.
- DO: apriti al confronto. Fatti domande. Lasciati sorprendere da ciò che donatori e colleghi ti restituiscono.
- DON’T: non cadere nell’autoreferenzialità. Pensare di sapere già tutto è il modo più rapido per perdere connessioni.
3. Schiettezza
Nel fundraising le parole non sono un dettaglio. Sono la sostanza.
- DO: parla e scrivi in modo chiaro, diretto, comprensibile. La semplicità è rispetto.
- DON’T: evita giri di parole, formule arzigogolate, tecnicismi inutili. Non rafforzano la fiducia, la incrinano.
4. Temperanza
Il fundraising vive di equilibri. Tra entusiasmo e misura, tra azione e attesa.
- DO: accogli i rifiuti come parte del percorso. Servono a calibrare meglio le strategie.
- DON’T: non reagire d’impulso e non prendere i “no” come fallimenti personali. Parlano del contesto, non di te.
5. Coerenza
Senza coerenza, tutto il resto perde senso.
- DO: allinea sempre ciò che prometti a ciò che l’organizzazione realmente fa. È lì che nasce la fiducia.
- DON’T: non promettere ciò che non puoi mantenere. Una promessa mancata cancella mesi di lavoro.
Fare fundraising non significa semplicemente raccogliere fondi. Significa costruire, in primis, fiducia. Giorno dopo giorno, parola dopo parola, gesto dopo gesto. Per questo queste cinque caratteristiche – visione, ascolto, schiettezza, temperanza e coerenza – non sono “tecniche” che si imparano sui manuali. Sono atteggiamenti, modi di stare nel mondo, che si coltivano nella pratica quotidiana.
Gli strumenti, le strategie, le campagne vengono dopo. Sono importanti, ma senza queste qualità restano gusci vuoti.
Alla fine, il fundraising non è convincere qualcuno a donare. È generare legami solidi, credibili, duraturi. Ed è proprio questo che lo rende, al tempo stesso, il mestiere più difficile e il più bello che ci sia.
Ah, e buon rientro ☺️