Da qualche tempo ho il privilegio di confrontarmi con nomi noti nelle relazioni pubbliche in Ferpi, associazione di cui faccio parte da qualche anno. Sedersi ai tavoli di discussione sulla comunicazione mi permette di ampliare il campo visivo e di alimentare la percezione che ho sul nonprofit e sulle opportunità che offre, soprattutto in termini professionali. Non solo: questo esercizio mi è utile per capire quanto si sa e come viene percepito il Terzo Settore, in primo luogo dai colleghi – stakeholders privilegiati – e, a cascata, dal resto del mondo itinerante.
Bene. Il risultato è: tanto si parla ma poco si sa. Non è una novità ma il gap è profondo.
Sintetizzo brevemente: il nonprofit fa cose buone e giuste ma il nonprofit non sa comunicare. Da professionista questo è un duro colpo da accettare. Nonostante la fatica quotidiana, non siamo ancora stati in grado di modificare questa visione limitativa e limitante per la crescita del nostro settore. Penso e ci ripenso e mi chiedo quale sia davvero il problema. Ho una mia teoria naturalmente. Ve la espongo e vi propongo una soluzione.
Diagnosi. Riteniamo, a torto, che il fatto stesso di occuparci di una buona causa sia sufficiente a farci ascoltare. Non è così. Le buone cause sono sì condizione necessaria ma certamente non sufficiente. Di più: così preoccupati e occupati a parlare di noi e dei nostri bisogni, arroccandoci su intenzioni, propositi e posizioni, finiamo con il perdere di vista il punto di vista degli altri. Credo che in fondo siamo tutti un po’ affetti da una visione NONPROFIT-CENTRICA. Pur in buona fede. Ci giustifica il fatto che amiamo profondamente il nostro lavoro e le cause per cui, quotidianamente, ci adoperiamo. Oltre ad avere dei diritti, sacrosanti, abbiamo dei doveri. E il primo è quello di porci in modo professionale. Sempre.
Cura. Parafrasando Crozza, ecco il mio foglio del come: ogni volta che come individui o singoli professionisti incontriamo persone e aziende, non dimentichiamo mai qual è la nostra responsabilità. Proponiamoci sempre in modo professionale spazzando via i luoghi comuni che sviliscono il nostro contributo. Mettiamoci sullo stesso piano dell’interlocutore. Non dimentichiamo di continuare a leggere, formarci, confrontarci. Per crescere e migliorarci. Il cambiamento culturale deve avvenire in primo luogo da noi. E forse, con un po’ di lavoro e qualche no, saremo in grado di sostituire al concetto di beneficenza il termine di valore produttivo di utilità sociale.
La metafora del diamante etico mi piace per definire il nostro lavoro: la preziosità della nostra professionalità è fuori di dubbio e non deve essere messa in discussione. Forse non cambieremo il mondo ma certo contribuiremo a migliorarlo e, con esso, a facilitare il nostro compito quotidiano.