Arriva sempre il momento in cui nella tua vita professionale ti chiedi se quel che fai è bene. Se ha senso. Se potresti farlo meglio o, magari, potresti farlo in modo diverso.
Capita che ti guardi intorno e fatichi a comprendere il motivo delle cose. Si dice che ci sia sempre un senso ma non sempre, questo senso, sei in grado di individuarlo. Quello di oggi è uno di quei momenti.
Provo a spiegarmi meglio.
A livello personale, succede che ti senti forte, preparato, competente. Sai che ce la fai. Che, passo dopo passo, un passetto avanti lo fai. Evviva!, ti dici. Pacca sulla spalla e prosegui. Ce l’hai fatta anche oggi. Un traguardo raggiunto. Magari due. Parli delle cose che ti piacciono e fai le cose che ti piacciono. Una grande fortuna e una fortuna ancora più grande se dal confronto con altri riesci a far emergere non tanto quel che sei ma, soprattutto, quel che fai. Perché sappiamo bene quanto il nonprofit sia articolato e complicato. In modo particolare, se il Terzo settore lo vivi come professione, per ben oltre le 40 ore settimanali previste e con ben altri investimenti che non riguardano il tempo e il denaro. Parlo di valori. Di empatia. Di tutta quella sfera del sé che fa parte del tuo Io più profondo.
Poi, succede che a livello interpersonale ti confronti con persone distanti. Marziane, direi. A seconda dei momenti, succede che ti senti inutile. Non foss’altro perché inutile è il confronto. Preconcetti e pregiudizi sono duri a morire e questo è frustrante. Sei un professionista ma ti accorgi che la tua professionalità è considerata un po’ meno professionale di altre. Un po’ come se quel “non” davanti al termine “profit” potesse facilmente trasformarsi in un prefisso adattabile e declinabile nelle più diverse accezioni: (non) professionale, (non) competente, (non) necessario, (non) utile, (non) credibile (che è peggio!). Anche questo lo sappiamo bene come sappiamo bene che così non è. E allora passi oltre. Fai spallucce e un po’ più zavorrato prosegui il cammino. Che fatica!, ti dici. Guardi avanti e vedi che nel frattempo, il passetto guadagnato lo hai perso e ti tocca ricominciare.
E poi, sollevi lo sguardo e guardi oltre il tuo naso. Ti vedi quasi in un film: tu che scalpiti. Ti muovi. Fai cose ma il resto del mondo sembra non accorgersene. Prosegue per la propria strada, con o senza di te. Decide al tuo posto quel che è bene e quel che è male. Senza cognizione e forse senza convizione ma questo è. Così è se vi pare…, ti dici. E tu ti lasci trasportare. Impotente. Lasciando che altri decidano della tua vita.
E’ così che vedo il Terzo settore nel nostro Belpaese: malato di nanismo e geloso della propria singola identità. Timoroso della privazione del proprio sé a favore di qualcosa che privilegi un beneficio allargato. Consapevole fino al midollo dei propri doveri ma impotente e incapace di farsi portavoce dei propri diritti. La scelte politiche di questi giorni fanno scuola a tal proposito.
Io non so quale sia la formula magica per sconfiggere questo brutto vizio provinciale che ci affligge e che al nostro interno sembra trovare il suo habitat naturale. Ma quel che so è che se continueremo a lavorare ciascuno per sé, contribuiremo a rafforzare la solitudine che ci contraddistingue e ad alimentare la non competenza, non competitività, il non potere contrattuale, la non credibilità (senza parentesi, questa volta… che è peggio!) che ci attanaglia e che ci lascia soli e indifesi di fronte a chi delle nostre competenze e esperienze si avvantaggia.
Questo è il mio pensiero e questa volta davvero vorrei sentirmi la sola a pensarla così. Ma forse mi sbaglio…
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