
Il fundraiser è, si dice, un costruttore di ponti.
Un’immagine che mi piace, e che trovo incredibilmente vera. Perché il nostro mestiere è proprio questo: creare e mantenere relazioni nel tempo. Relazioni che si fondano su una materia fragile e potente: la fiducia.
E la fiducia, si sa, non si comanda. Non si pretende. Non si impone. La fiducia si coltiva. Si merita. Si costruisce, passo dopo passo. E per costruirla, abbiamo uno strumento preciso: le parole.
Le parole sono fondamenta. Sono travi. Sono archi. Sono ciò che tiene in piedi quei ponti invisibili tra chi chiede e chi sceglie di dare. Le parole uniscono. Le parole dividono. Possono avvicinare o tenere lontani. Possono far nascere un legame, oppure interromperlo prima ancora che inizi.
Per questo, nel fundraising, le parole non sono mai solo parole. Aprono. Chiudono. Coinvolgono o respingono. Fanno fiorire, o fanno seccare.
Sembra scontato, ma non lo è affatto. Perché quante volte – ancora oggi – ci troviamo davanti a campagne costruite sulla mancanza, sulla pietà, sulla colpa?
- “Aiutaci.”
- “Abbiamo bisogno di te.”
- “Senza il tuo aiuto non possiamo farcela.”
Questa è la grammatica che chiude. Perché non responsabilizza. Non riconosce. Non accoglie. Non racconta una visione, non coinvolge in un orizzonte. Fa leva su un’unica leva: il senso di colpa.
Ma il dono vero – quello che nasce libero – non nasce dalla colpa. Nasce dal senso. Dalla risonanza. Da un sentire che risuona dentro, anche se non ci riguarda da vicino.
Chi fa fundraising lo sa: non si cerca una firma. Si cerca una relazione.
E le relazioni, prima ancora che con i fatti, si costruiscono con le parole. Con il modo in cui raccontiamo. Con il tono. Con la scelta di ciò che diciamo, e anche di ciò che scegliamo di non dire.
La grammatica del dono è una grammatica dell’incontro.
E allora la domanda è: quali parole aprono? E quali, invece, chiudono?
Parole che chiudono:
- quelle che implorano, non che propongono;
- quelle che parlano solo di bisogno, non di progetto;
- quelle che creano distanza (“loro”, “quei bambini”, “gli ultimi”) invece di prossimità (“insieme”, “per tutti noi”, “una comunità che…”).
Parole che aprono:
- quelle che spiegano con chiarezza e rispetto;
- quelle che mostrano una visione;
- quelle che fanno sentire parte di qualcosa;
- quelle che costruiscono fiducia.
Non è un dettaglio. È una scelta di campo. È strategia, certo. Ma è anche una questione etica. Scegliere le parole giuste vuol dire riconoscere nel donatore una persona, non un portafoglio. Vuol dire guardarlo negli occhi, anche senza vederlo.
Vuol dire dirgli: “Ecco dove vogliamo andare. Se vuoi, vieni con noi.”
E poi c’è il tono.
Il tono non è un orpello. È sostanza.
Un tono vero, semplice, accogliente… invita. Un tono paternalista, confuso, gridato… allontana.
Occorre imparare a parlare con semplicità. Semplificare per arrivare. Per farsi capire. Anche da chi non vuole capire. Perché in pochi minuti puoi cambiare il mondo, se parli chiaro. Diversamente, non ti basteranno migliaia di ore né centinaia di manifesti.
È per questo che parlo di grammatica. Non si tratta solo di scegliere parole “belle”. Si tratta di creare un sistema coerente, credibile, autentico.
Una narrazione che rappresenti davvero chi siamo. Che dica la verità, e la dica con rispetto. Perché ogni parola che usiamo racconta qualcosa. Di noi. Del nostro modo di vedere gli altri. Del mondo che vogliamo costruire, insieme.
Chi fa fundraising non vende. Non forza. Non implora. Chi fa fundraising propone. Invita. Costruisce. E lo fa con le parole. Perché ogni parola è una scelta. E ogni scelta comunica. Sempre.