Nel corso dei giorni scorsi, sono state pubblicate le ricerche sul dono di due autorevoli osservatori italiani: Istituto Italiano della Donazione e Italia Non Profit. Entrambe arricchiscono la letteratura in materia (GFK Eurisko e Vita non profit) che comincia, per fortuna, a essere piuttosto ampia o, almeno, a raccogliere l’interesse che merita perché le cifre sono tutt’altro che trascurabili.
Condivido il pensiero di Massimo Coen Cagli sulla lettura dei dati del dono e sulla necessità di stabilire criteri comuni di misurazione. I dati sono dati ma la loro imputazione e, soprattutto, la loro analisi possono differire di molto e far cambiare la percezione delle cose. Ad ogni modo, i numeri sono numeri e i dati una fotografia del momento.
Ritengo invece sia interessante provare a ipotizzare cosa dobbiamo aspettarci ora facendo delle ipotesi che nascono da una riflessione di senso che parta da un’osservazione dei dati in un periodo più ampio.
Mi spiego meglio:
chi si occupa di dono deve avere ben presenti questi dati ma è poi necessario che vada oltre e impari a spalmarli senza fermarsi al numero in sé perché questo sarebbe un errore.
GFK Eurisko (cit.) ha negli anni promosso una ricerca molto interessante, un osservatorio sui donatori del Belpaese, che evidenziato come inclini al dono due italiani su 10. Solo fino a 15 anni fa circa, i donatori erano tre su dieci. Abbiamo dunque perso il 10% di questa popolazione. Da qui parte una riflessione che merita attenzione: una buona parte di italiani non è propensa al dono. Ciò significa che in una condizione di normalità, probabilmente non donerebbe. In una condizione di normalità, appunto… ma quella attuale, quella emergenziale, non è evidentemente una condizione normale.
Faccio dunque alcune considerazioni consequenziali sullo stato attuale che desidero passare come tali e che solo il tempo potrà o meno confermare (materia che ho poi approfondito per la stesura di Raccolta fondi, il mio ultimo libro):
- In maggio, in pieno lockdown, l’ammontare delle donazioni ha superato solo in Italia il miliardo di euro. Faccio solo un’ipotesi ma è probabile che molti donatori fossero alla loro prima volta. Probabilmente, per molti di loro si è trattato di un “caso isolato” e non riaccadrà in futuro. Per qualcuno, invece, può essere una novità piacevole, tutto sta a capire se l’esperienza di dono che ne risulterà sarà positiva o meno. Questo dipenderà molto dalle azioni che i nostri enti metteranno a supporto.
- Rispetto alle modalità, la chiusura ha accelerato l’affermarsi delle nuove modalità di pagamento, non c’è dubbio. Un processo che era già in atto ma che si è forzatamente affermato: ciò vale anche per il dono, penso, ed è fisiologico. Accompagnare la trasformazione digitale è la scelta più ovvia e di senso ma non deve sostituire la tradizione in via definitiva, non ancora almeno.
- Ma anche l’universo dei donatori abituali, che sappiamo avere un’età matura (> 65), ha probabilmente subito un mutamento nei primi sei mesi dell’anno e di questo ne avremo percezione solo nei mesi a venire.
- Faccio poi una riflessione in merito allo spostamento dell’atto di dono causato dall’emergenza: buona parte del dono si è concentrato su quest’ultima, questo è fuori di dubbio, ma non ha probabilmente spostato la scelta del donatore abituale. Certo può essere che il peso del dono si sia assottigliato. La risposta all’emergenza è un comportamento istintivo che è altra cosa rispetto a una scelta consapevole e “di campo”. Quindi, ci può essere una flessione ma non mi aspetto una caduta drastica. Se l’organizzazione ha fatto un buon lavoro in termini di gestione del donatore, non credo debba temere. Un buon indicatore rispetto a ciò potrà arrivarci dalla lettura dei dati del 5×1000 sui redditi 2019, ovvero dalle scelte appena effettuate. Questa sarà una vera cartina di tornasole sull’agire organizzativo, a mio parere, ma anche qui purtroppo sappiamo non essere pratica diffusa e quindi i dati sono comunque parziali. Altra cosa però sarà la qualità del dono che già da oggi potrebbe contrarsi con ogni probabilità per alcune categorie di donatori, ovvero quelle fasce della popolazione che pur abituate a donare hanno dovuto fare i conti con gli effetti sul proprio lavoro.
Insomma:
Una cosa è il contesto emergenziale e l’altra è la cultura del dono che in Italia è ancora carente, purtroppo. Di questo, le Onp hanno responsabilità attiva; loro compito è lavorarci su.
C’è un contesto e poi c’è un comportamento attivo in risposta al contesto. Le azioni dei donatori dipendono dall’uno e dall’altro e non sono prerogativa di uno o dell’altro.
Il virus c’è stato, c’è e ci sarà ma non può diventare alibi per il non fare. C’è dunque da chiedersi come le diverse organizzazioni abbiano affrontato la difficoltà del momento e quali strumenti hanno deciso di mettere in atto per affrontarle perché molto del loro futuro dipenderà da questo, a mio modo di vedere.
C’è poi un altro aspetto: le organizzazioni devono imparare a prevedere, anticipandoli, i comportamenti dei donatori anche futuri. Questo significa studiare le generazioni, comprendendo che le future, parlo delle generazioni Z e alpha, sono molto diverse da quelle che le hanno precedute. Per intercettarle già da adesso occorre andare a prenderle dove si trovano. Per farlo, occorre studiare e informarsi. Troviamo il tempo di farlo.
Ecco, io sinceramente sono ottimista verso il futuro ma dobbiamo aspettarci un investimento diverso dall’attuale perché diversamente non saremo in grado di affrontare il cambiamento che è già in atto. Non è colpa di nessuno.
Ultime notizie. Mentre scrivo, ci arriva comunicazione che il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ha finalmente pubblicato il decreto per l’avvio del Runts, il Registro Unico Nazionali del Terzo Settore. Una bella, bellissima notizia in un periodo di grande precarietà e incertezza come l’attuale e che speriamo acceleri la sua istituzione e l’anticipi al 2021. Vai al sito.