39432252 - hand in sea water asking for help. failure and rescue concept.

Nel variegato mondo del nonprofit che la mia attività mi porta a conoscere, incontro persone e organizzazioni di ogni forma e colore. A volte la cosa è divertente e mi entusiasma. Altre, mi spiazza. Altre ancora mi sconforta. Bene, ogni situazione ha una storia a sé e un motivo diverso per cui decide di ricorrere la fundraising.

Ma diciamocelo:

ci sono alcuni casi in cui il fundraising proprio proprio non funziona ed è destinato a fallire.

CASO 1.

La cosa peggiore che possa fare un’organizzazione è quella di pensare al fundraising quando si trova già in una situazione di emergenza. Chiudere i recinti quando i buoi sono scappati è inutile oltre che frustrante. Per funzionare, il fundraising ha bisogno di tempi opportuni di ritorno. Poi ci sono le eccezioni ma quelle sono, nella maggior parte dei casi, dei colpi di fortuna. Questa è una situazione che paradossalmente ho ritrovato più nelle cooperative sociali che nelle associazioni. Abituate a gestire attività d’impresa, ricorrono al fundraising dopo aver percorso altre strade e a volte, purtroppo, è troppo tardi.

CASO 2.

Quando il fundraiser è lasciato solo ad occuparsi di raccolta fondi all’interno della sua organizzazione. Fare fundraising è un lavoro di concerto e si vince poche volte se il percorso lo si corre in solitaria. Il ruolo del fundraiser è quello di individuare, sistematizzare e organizzare tutte le attività che possono favorire la raccolta ma senza il contributo dei colleghi, del consiglio direttivo, dei volontari, diventa una corsa a ostacoli.

CASO 3.

Quando l’organizzazione vuole fare raccolta fondi senza fare comunicazione. E’ questo il caso in cui l’investimento si riduce al lumicino e quello che conta è il carattere del fundraiser cui viene demandata la responsabilità di andare in cerca dei contributi, un po’ come Fra’ Galdino con le noci. Va chiarito un punto sacrosanto: le persone donano agli enti che conoscono e di cui si fidano. Dunque, premesse necessarie sono la costruzione dell’identità, la notorietà, la reputazione positiva, tutti aspetti che contribuiscono a generare un clima di fiducia e che, in ultimo, portano al dono. Sennò, nulla.

CASO 4.

Quando l’organizzazione fa comunicazione ma non vuole fare raccolta fondi. Riformulo e provo a spiegarmi meglio: quando l’organizzazione fa comunicazione ma è eccessivamente intimorita nel chiedere. Anche in questo caso il fundraising finisce con il fallire. Chiedere è condizione necessaria. Se non chiedi e presumi che la persona raggiunta dalla comunicazione capisca immediatamente che quello che vuoi da lei è la sua donazione, be’… non ci siamo. Chiedere è lecito, rispondere è cortesia (nel caso). Un fundraiser chiede e dà al possibile donatore gli strumenti per poterlo fare. Punto. Al massimo, ti dicono di no. Sarà mica un dramma (!).

CASO 5.

No relazioni? Ahi Ahi Ahi. Il fundraising parte dalle relazioni personali, soprattutto in una fase iniziale. Ma anche successivamente il fundraising continua a basare i suoi successi più grandi sempre sulle relazioni personali che, nel frattempo, si sono allaragate, sono mutate, sono maturate negli obiettivi e nella forma. La gestione delle opportunità – si badi bene – portate dalle relazioni è dunque fondamentale ma preservare le relazioni dal coinvolgimento nella causa sociale perché lo si ritiene opportunistico è un peccato. C’è modo e maniera di fare le cose!, direbbe qualcuno.

Tutti questi casi raccontano una sola realtà:

il fundraising deve rientrare in una scelta di sistema; non può, non è e non deve essere considerata un’attività estemporanea e dai ritorni certi, soprattutto se a stretto giro.

A pensarci bene, di casi ce ne sono tanti altri e la lista potrebbe tendere ad allungarsi di un po’. Qualche idea? Raccontala qui e sarò lieta di arricchire l’elenco :) .

Ti aspetto.

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