Nel corso degli anni, mi è spesso capitato di utilizzare una frase che rappresenta la mia visione del fundraising: “Il fundraising non è altro che un sistema di marketing a fini solidali.” Questa affermazione, sebbene talvolta percepita con diffidenza e anche con un certo disprezzo, esprime una verità, a mio modo di vedere, fondamentale per chi lavora in questo settore. Il marketing, proprio come il fundraising, ha al centro la comprensione delle persone e la costruzione di relazioni; entrambi si fondano sull’empatia e sulla capacità di connettersi autenticamente con il pubblico. A cambiare è il fine, naturalmente.

Resta intesa una questione che preferisco sottolineare subito per sgombrare il campo da inutili malintesi: essere un fundraiser è ben più complicato di essere un marketer. Mentre il marketer si rivolge a un pubblico che è anche il diretto destinatario del bene o del servizio offerto, il fundraiser ha il compito di persuadere, convincere, un pubblico a sostenere un bisogno che appartiene il più delle volte a qualcun altro. Questo significa operare in una dinamica profondamente solidale, basata su valori come la compassione e l’altruismo. Se nel marketing commerciale si fa leva su un soddisfacimento personale o su un bisogno diretto, nel fundraising si chiede alle persone di andare oltre il proprio interesse e di abbracciare una causa che, spesso, non porterà loro un beneficio tangibile.

Come comprendere il donatore

Va dunque da sé che uno degli elementi più importanti del fundraising è la comprensione profonda del donatore. Così come il marketing cerca di conoscere i clienti per soddisfare i loro bisogni, nel fundraising è essenziale comprendere le motivazioni che spingono le persone a donare. Ogni donatore ha un motivo diverso: alcuni si sentono legati personalmente alla causa, altri cercano un modo per contribuire a un cambiamento sociale. Ascoltare queste motivazioni, e tenerne traccia, ci permette di costruire campagne che risuonano vicine al bisogno, quindi reali, segmentando il pubblico e rispondendo alle necessità di ciascuno. E questa è una chiara componente del marketing.

Psicologia applicata” del dono 

Sì, perché nel fundraising, così come nel marketing, si tiene conto della psicologia che guida le scelte umane. Le persone donano non solo per supportare una causa, ma anche perché vogliono sentirsi parte di qualcosa di significativo. Le campagne di raccolta fondi devono quindi trasmettere al donatore che il suo contributo conta realmente, indipendentemente dall’entità della somma donata.

Essere chiari sul valore di ogni donazione rafforza la fiducia e motiva i donatori a continuare a contribuire.

Inoltre, a differenza di un prodotto tangibile, il “valore” di una donazione spesso non è misurabile in termini convenzionali.

Quale valore puoi dare al benessere o alla dignità umana?

Il fundraiser deve saper trasmettere l’importanza di questo impatto intangibile, di un cambiamento che riguarda il benessere altrui e che si manifesta attraverso l’empatia e la compassione. Qui risiede una complessità che va oltre le logiche di marketing convenzionale.

Errore comune, non mi si dica di no

Un errore comune nel fundraising è trattare i donatori come semplici “fonti di entrate” piuttosto che come persone da valorizzare e coinvolgere. Certo, è più facile – cioè meno impegnativo  per il fundraiser (e per l’ente, of course) – che il legame si fermi al dono e non richieda impegno ulteriore, ma alla lunga questa cosa non paga. Paga, invece, il contrario. Proprio come nel marketing, è fondamentale offrire esperienze che rafforzino il legame con l’organizzazione. Eventi, aggiornamenti personalizzati e opportunità di vedere direttamente l’impatto delle loro donazioni contribuiscono a far sentire i donatori parte di una comunità. Questo approccio li fidelizza e li trasforma in ambasciatori della causa, pronti a promuovere l’organizzazione grazie all’esperienza positiva vissuta. Questo approccio è impegnativo, e molto. Lo so bene.

Il fundraising è dunque un sistema di marketing a fini solidali; una prospettiva essenziale per chi vuole fare la differenza.

Il marketing applicato al fundraising non si limita alla raccolta di fondi: è una questione di costruzione di relazioni profonde (eh, sì: il fundraiser è un relatore pubblico nel suo piccolo; un costruttore di ponti, come si usa spesso dire), di comunicazione del valore della causa e di coinvolgimento delle persone. Adottare questo approccio non solo permette di raccogliere più risorse, ma trasforma il fundraising in un motore di cambiamento sociale, capace di ispirare donatori e creare un impatto sempre maggiore.

Concludo con un’affermazione forte, ma che trovo profondamente vera oggi come oggi: la differenza tra comunicazione, marketing e raccolta fondi, che ho sempre messo – sin dall’inizio della mia carriera nel settore – sotto il cappello del fundraising, è sempre più evanescente. Anzi, per me di fatto inesistente. Un professionista nel fundraising deve, a mio avviso, essere in grado di barcamenarsi professionalmente tra questi ambiti perché la settorializzazione è sempre più retaggio del passato e di un mondo del lavoro che, spiace, ma non esiste più. Facciamocene una ragione.

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