Simulare prima per fare fundraising poi è un esercizio davvero utile. Questa tecnica di simulazione della richiesta del dono permette una serie di valutazioni sulle modalità di approccio e sulle implicazioni. Prepara a gestire il rischio. Anticipa. A parlarcene in questo Guest Post, Simona Biancu, professionista della raccolta fondi e formatrice. A lei va il mio grazie di cuore in questo caldo agosto per aver contribuito, con questo prezioso articolo, ad arricchire il blog e a te l’invito a raccontare qui e condividere la tua esperienza e renderla patrimonio comune. :)

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Sempre più, nel dibattito su cosa è e come sia “interpretabile” il Fundraising in Italia nella situazione attuale, il focus del discorso si sposta – correttamente – sulla figura del donatore. Sia esso una persona fisica, un’azienda, una Fondazione o qualunque altro soggetto “capace” di donare e di sposare la buona causa dell’organizzazione nonprofit. E allora è di importanza vitale provare ad approfondire le dinamiche che stanno dietro alla donazione, con lo scopo di far evolvere un atto di beneficenza una tantum in una relazione tra l’organizzazione e il donatore.

L’oggetto dell’approfondimento di questo post è, dunque, il momento precedente alla donazione, quello della richiesta. Il momento, in altre parole, in cui le persone dell’organizzazione incontrano il potenziale donatore per chiedere il suo sostegno.

Nella mia attività di consulente di Fundraising e anche in occasione dei corsi che tengo per le organizzazioni, è questo un aspetto che emerge come particolarmente critico.

In termini “personali”: temo di essere inopportuno chiedendo fondi, non mi sento a mio agio nel rapporto faccia a faccia che terminerà con una richiesta di fondi, mi sento in soggezione.
O in termini professionali riferiti all’organizzazione: non so se ricorderò di dire tutto quello che mi ero prefisso, non ho un’idea così precisa del funzionamento dell’organizzazione e a volte mi manca il terreno sotto i piedi, non sono così certo che la persona che andrò ad incontrare sia realmente interessato alla buona causa dell’organizzazione e non riesco a capire su che registro impostare la conversazione.

E allora un’attività utile è preparare le persone delle organizzazioni ad affrontare e gestire il momento della richiesta dando vita ad una simulazione di quello che ordinariamente accade nella dinamica negoziale tra le parti (nel nonprofit come nel profit).

DALLA TEORIA

  • Definendo il setting, innanzitutto: due gruppi di lavoro, ognuno dei quali interpreterà il ruolo dell’organizzazione richiedente o quello del potenziale donatore.
  • Preparando i materiali (naturalmente appena abbozzati, se non sotto forma di promemoria da predisporre nelle situazioni reali, durante la simulazione): se il presupposto del Fundraising è la relazione, allora incontrare un donatore “deve” comportare la condivisione della buona causa, del progetto per cui viene richiesto il supporto. Il raccontare e raccontarsi, in altre parole, che, più spesso di quanto non si dovrebbe, viene dato per scontato e la cui omissione abbassa a priori il livello di coinvolgimento rispetto alla buona causa. Una sintesi dei progetti, uno schema di bilancio, un documento sull’ “Associazione in pillole” che dia conto ed evidenzi gli impatti della stessa, possono rivelarsi utili a supportare e rafforzare il dialogo con il potenziale donatore.
  • E, infine, il faccia a faccia con l’interlocutore. Che significa sedersi uno di fronte all’altro e, insieme, provare a individuare un terreno comune di dialogo, scambio, supporto. Perché quello che occorre aver chiaro è che donare è un gesto gratificante per chi lo compie in nome dell’adesione a valori di riferimento e dà vita ad una relazione di reciprocità basata su uno scambio di beni non equivalenti dal punto di vista economico che ha come implicazione la cura del bene comune.

Questa è la teoria. Trovo ogni volta interessante vedere cosa succede nella pratica, seppure sotto forma di simulazione. Occorre arrivare preparati, all’incontro con il potenziale donatore: il Fundraising è un mix di emozione e razionalità, e l’una non funziona compiutamente senza l’altra. Avere chiaro in mente la struttura del discorso: chi siamo, cosa facciamo, quale impatto abbiamo sulla “nostra” realtà, di cosa abbiamo bisogno, cosa puoi fare tu per supportarci, in che modo possiamo collaborare.

Simulare una situazione del genere ha naturali implicazioni:

  • Comporta mettersi in gioco, anche emotivamente, e gestire l’ansia e lo stress che il chiedere porta con sé.
  • Implica gestire la paura del rifiuto con la consapevolezza di avere chiaro l’eventuale piano B (non puoi donarmi fondi? Proviamo a capire insieme come puoi supportarci per lo stesso tipo di fabbisogno, in altro modo – beni? volontariato? contatti?).
  • Determina la volontà di comunicare/comunicarsi e trovare un terreno di scambio che sia un rapporto alla pari. Non, quindi, “dammi quello che puoi come gesto di beneficenza” ma, al contrario, “iniziamo una relazione che abbia come conseguenza un ritorno – morale, economico – per entrambi”.

ALLA PRATICA

La reazione iniziale dei partecipanti è, spesso, quello che io chiamo “stupore impegnato”: una sorta di moderato scetticismo rispetto alla pianificazione dell’incontro (non è possibile predeterminare le reazioni dell’interlocutore!) e, in sequenza, un’adesione alle “regole del gioco” (visto che siamo qui, perlomeno proviamoci!). Che pian piano prende forma: con una presentazione iniziale dell’organizzazione, della sua buona causa, dei progetti. E, spontaneamente in quanto pura e semplice espressione delle relazioni umane, con una sorta di verifica dell’interesse da parte dell’interlocutore – cosa ne pensa di questo piano? è la domanda che conclude la prima parte, quella in cui viene rotto il ghiaccio della conversazione.
La parte centrale del colloquio è di solito caratterizzata da un clima disteso, di dialogo, reciproca conoscenza, approfondimento.

E poi arriva il momento della richiesta.

Il mio suggerimento – siate chiari, non girate intorno alle parole, mettete il vostro interlocutore in grado di capire cosa state chiedendo senza creare inutili imbarazzi o misunderstanding – non è quasi mai (devo ammetterlo) la prima scelta. Spesso arrivare al momento della richiesta implica un giro di parole della durata di un quarto d’ora, trascorso il quale, di solito, si riesce a formulare la frase di richiesta di fondi.

A questo punto tutte le carte sono (dovrebbero, perlomeno) essere in tavola. E’ dunque il momento di lasciare all’interlocutore il tempo di recepire, elaborare, fare propria la richiesta in quanto sintesi e obiettivo dichiarato dell’incontro. Non è semplice tacere e rispettare i tempi di reazione altrui, ma è fondamentale: per non creare pressioni inutili, per non farsi prendere dall’ansia da prestazione, per non confondere le acque di un discorso che, se impostato correttamente, porterà a dei risultati. Non sempre immediati, non sempre corrispondenti all’obiettivo, spesso base di successivi incontri e approfondimenti. Ed è in quest’ottica che il rifiuto non deve spaventare o indurre a rinunciare – naturalmente se il contatto con l’interlocutore è stato individuato su una base corretta di relazione e interesse rispetto alla buona causa dell’organizzazione.

Il piano B deve essere sempre pronto perché le relazioni sono fatte di segmenti non sempre lineari, non sono quasi mai veloci se l’obiettivo è la durata nel tempo, funzionano se la trasparenza, la reciprocità, il desiderio di lavorare insieme, sono costruiti su basi solide, condivise, progettuali.

Replicare una dinamica di questo tipo incentiva – perlomeno è questo il feedback che ricevo – la pianificazione, l’inserimento dell’adesione emozionale ad una buona causa all’interno di un progetto di reciproca collaborazione, l’approccio consapevolmente proattivo che comporta il vero dialogo reciprocamente interessato.

Nota a margine: l’elemento che genera ansia? Secondo i partecipanti ai miei corsi è il tempo, la definizione degli slot entro cui concentrare la presentazione, la definizione del fabbisogno, l’esplicitazione della richiesta, la proposta di un’eventuale alternativa o un incontro successivo di approfondimento. E’ su questo – la gestione del tempo – che concentrerò le prossime simulazioni, perché darsi un obiettivo rispetto ad un tempo prefissato non è cosa (sempre) facile ma è un segno di attenzione verso se stessi, i propri progetti e, non ultimo, verso l’interlocutore.

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GUEST POST. Thank to:

Simona Biancu, per sapere di più su di lei, la trovi qui: Progetti per il Fund Raising e la Responsabilità Sociale d’Impresa

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