Cosa si può fare quando a non voler collaborare sono colleghi e volontari?

Ho conosciuto Fabio su Twitter qualche tempo fa. Ha cominciato a seguirmi con la voglia di intraprendere un nuovo percorso professionale: lo sperimentare la nobile arte del fundraising all’interno della propria organizzazione, affiancandola alla sua professione usuale, quella di dirigente delle risorse umane. Dopo un corso a Bertinoro, Fabio torna carico e con la voglia di mettersi subito al lavoro. Ma i limiti e le difficoltà che si sta trovando ad affrontare sono diversi da quelli che spesse volte abbiamo trattati in queste pagine: paradossalmente, è la base a spingere sul pedale del freno. Questo è il motivo per cui ho pensato di scriverne e dar voce alle sue parole, certa che non farete mancare a un nuovo collega il supporto e il riscontro.

Ecco cosa scrive. Riporto testuale:

Sono tornato con un sacco di idee da sviluppare dal corso della Fund Raising School. Idee che ho diligentemente pensato, pianificato e proposto, come indicato dai docenti del corso, ai colleghi della Direzione del mio ente che prontamente hanno dato il via praticamente a tutto. Quello che mi ha meravigliato, o almeno dovevo aspettarmelo, sono state le resistenze dell’organizzazione dove ormai si sono consolidate delle aree di benessere dentro le quali è tabù cercare di entrare. I miei laboratori, i miei anziani, i miei ragazzi. Queste le frasi che mi sono sentite pronunciare nel momento in cui ho comunicato l’inizio di un percorso di coscientizzazione al fundraising. Un percorso che prevede dei momenti di scambio e informazione sulla necessità di dotarsi di un ufficio raccolta fondi. Abbiamo sempre fatto così con i volontari, ormai i nostri eventi sono strutturati così… etc. Resistenze che rasentano l’ostruzionismo. Sono quasi diventato uno che vuole cose strane, fuori dal mondo e quasi vuol creare nuove spese in un momento assai difficile anche per il nonprofit. Insomma, per assurdo, non è il vertice a ostacolarmi, ma la base operativa. Forse non è neppure difficile agire avendo queste prerogative ma si rischia di non avere, se non gestito bene, il motore per fare andare l’auto a pieni giri. Va bene, mi metterò a testa bassa o meglio, farò una bella revisione all’automezzo vedendo di registrare qualcosa che non va. Ho sbagliato qualcosa?

Privatamente, Fabio mi precisa che le resistenze non sono tanto sul fundraising e sulla novità che quest’attività potrebbe portare, quanto di tipo psicologico:

Ognuno, negli anni, si è ritagliato un’area di benessere. Ovvero, gli eventi che organizzo sono miei e solo miei. La gratificazione deve essere mia. Poi questi eventi, anche se positivi, vanno a morire perché non c’è stato un minimo di coinvolgimento di altri e quindi il promotore rimane solo e sopraggiungono frustrazioni, delusioni, rabbia. Tutti sentimenti che finiscono con il ripercuotersi sull’organizzazione. Queste persone sono abituate a puntare il dito sugli altri prima di pensare a come loro, personalmente, hanno coinvolto altri e come, quindi, ne sono responsabili in primis. (…) La paura è la perdita della propria area di leadership. Il direttivo (diversamente, ndr) è stato da subito molto convinto della mia proposta/progetto e mi ha spronato a formarmi. Però sai bene come funzione, rischio di avere una bella auto, senza un motore che gira a pieno…

Hai avuto un’esperienza simile? Come l’hai affrontata? E cosa intendiamo per “difficoltà di rinnovo”? Parliamo di preconcetti duri a morire o piuttosto di un po’ di lassismo e/o pressappochismo a volte sintomatico nel mondo dell’associazionismo? Con questi ultimi concetti intendo la volontà manifesta di mantenere un profilo basso che a volte si trasforma in inerzia e altre nell’idea che bisogna mostrarsi poveri a tutti i costi.

Aiutiamolo e aiutiamoci a capire.

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Se vuoi conoscere Fabio, ti invito a leggere il suo blog e a seguirlo su Twitter all’indirizzo @Fabceseri.

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