Nel nonprofit, come nelle aziende, non tutti gli stakeholder sono uguali. Alcuni hanno un impatto profondo, altri restano più marginali. Per questo è fondamentale concentrarsi sull’attrarre i giusti: coloro che condividono valori, visione, intenzioni. Nel nostro caso, parliamo dei giovani e giovanissimi. Ragazzi che oggi non donano denaro, o lo fanno in minima parte, ma che rappresentano stakeholder essenziali nel rapporto con il dono.

Sono loro i portatori di un capitale diverso: tempo, energie, creatività, partecipazione. E sono loro che, se coinvolti bene, potranno diventare i donatori consapevoli e solidi del domani.

Recentemente mi sono imbattuta in un articolo di Harvard Business Review intitolato “How to Attract the Right Shareholders” (HBR, agosto 2023). Un po’ datato, ma pur sempre valido, e pur riferendosi ad azionisti nel mondo aziendale, contiene spunti che, traslati bene nel nonprofit, diventano terreno fecondo per costruire relazioni durature con le nuove generazioni.

Vediamoli insieme e concludiamo, con oggi e per il momento, il tema sui giovani e dono.

Segmentazione: non tutti i giovani sono uguali

Troppo spesso parliamo dei giovani come se fossero un blocco compatto. In realtà, tra un ventenne e un dodicenne passa un mondo. La coda della Gen Z ha già assaggiato forme di cittadinanza attiva, i giovanissimi della Generazione Alpha sono ancora in fase di esplorazione. Un ente nonprofit che vuole attrarre davvero deve partire da qui: segmentare. Creare profili distinti in base a valori, interessi, modalità di interazione. Proporre attività concrete a chi ha già esperienza di volontariato. Offrire esperienze digitali, leggere e formative, a chi muove i primi passi. Segmentare non significa dividere. Significa parlare meglio a ciascuno, con più rispetto e più efficacia.

Dare valore concreto e relazionale

Ai ragazzi non basta il richiamo generico: “donate, partecipate”. Vogliono sapere cosa cambia grazie al loro contributo. E soprattutto vogliono relazioni autentiche. Un ente può rendere il valore tangibile in molti modi: raccontando storie di volontari giovanissimi che hanno generato impatto reale. Mostrando risultati concreti, anche piccoli, con foto, video, testimonianze. Creando momenti di esperienza diretta: visite ai progetti, attività sul territorio, giornate di restituzione. Il valore non si dichiara: si fa toccare con mano.

La coerenza come promessa mantenuta

Nulla mina più la fiducia dei giovani delle promesse non mantenute. Parlare di trasparenza, comunità, inclusione, e poi non incarnarle, crea fratture difficili da ricomporre. La coerenza, invece, diventa la garanzia di credibilità. Alcuni strumenti pratici: bilanci chiari e visuali, accessibili a tutti. Report periodici, con risultati ma anche con difficoltà e piccoli insuccessi. Spazi decisionali realmente aperti ai giovani, quando si dichiara di volerli coinvolgere. La coerenza è un atto di rispetto. E i giovani lo riconoscono subito.

Feedback continui e riconoscimento

Coinvolgere non basta. Occorre chiudere il cerchio: restituire. Il riconoscimento non è solo ringraziare: è mostrare che il gesto ha avuto senso, che è stato visto, che ha cambiato qualcosa. Newsletter dedicate ai giovani partecipanti, con testimonianze scritte da loro. Eventi o momenti di restituzione in cui raccontare i risultati. Piccoli rituali di riconoscimento: attestati, menzioni pubbliche, spazi dove la loro voce emerge. Chi si sente visto è più disposto a restare.

Il valore dell’esperienza

Niente come l’esperienza diretta genera apprendimento e legame. Le organizzazioni possono co-creare progetti insieme ai giovani, lasciando spazio alle loro idee. Proporre esperienze digitali immersive: challenge, podcast, video collettivi. Organizzare attività fisiche: laboratori, workshop, eventi locali. Fare è più forte che ascoltare. Ed è dal fare che nascono appartenenza e responsabilità.

Alcune cautele necessarie

Ci sono però attenzioni da non dimenticare: non pensare che bastino strumenti digitali per attirare: senza contenuti veri, la tecnologia è vuota. Non snaturare il proprio linguaggio per sembrare “giovane”: meglio essere naturale, coerente, anche se non si intercetta subito tutti. Non avere fretta: le relazioni si costruiscono nel tempo, con pazienza, errori e aggiustamenti.

Insomma, attirare i giusti stakeholder non è solo una questione di numeri. È una scelta di direzione. Nel nonprofit significa riconoscere che i giovani, anche se oggi non hanno capacità di dono economico, sono già stakeholder fondamentali del presente. Parte del tessuto sociale, parte delle comunità, protagonisti potenziali di una cultura del dono che non si improvvisa a 30 anni, ma si costruisce fin da subito.

Il segreto non è convincere tutti, ma attrarre chi può davvero camminare con noi. Nel nostro caso, significa investire oggi in chi domani sarà pronto a dare in modo consapevole e duraturo. Perché il fundraising, in fondo, non è mai stato una corsa al dono immediato. È creare le condizioni affinché quel dono – di tempo, energia, risorse – diventi possibile, oggi e domani.

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