Il Salone della CSR e dell’Innovazione Sociale, giunto quest’anno alla tredicesima edizione, si conferma non solo come luogo d’incontro, ma come crocevia di pensieri e pratiche che interrogano il presente.

Come moderatrice del panel “Imprese, terzo settore, PA: sinergie sempre nuove”, ho ascoltato e stimolato voci diverse — del mondo imprenditoriale, istituzionale e non profit —. Le ho viste reagire con lucidità, rispetto e una sincera volontà di costruzione comune. Più che gli interventi, è stato lo spirito a colpirmi: la sensazione di trovarsi di fronte a un tessuto che, pezzo dopo pezzo, sta imparando a ricomporsi.

Da quella conversazione è nata questa riflessione. Non un resoconto tecnico né una sintesi degli interventi (a cui rimando nel video complessivo in chiusura), ma una restituzione di senso. Di ciò che accade quando profit, non profit, istituzioni e comunità smettono di difendere i propri confini e iniziano a cercare, insieme, la linea del cambiamento possibile.

1. Un cambio di paradigma: da attori “isolati” a rete di sistema

Il primo sentimento che emerge chiaro è uno e uno solo: nessuno è sostenibile da solo. Non servono solo le grandi ONG né soltanto le imprese con forte capacità economica: serve che chi ha risorse, visione e mandate istituzionali si coordini. Perché il cambiamento riguarda problemi complessi — disuguaglianza, fragilità sociale sempre più complessa e complicata da sintetizzare, ambiente, diritti — che attraversano segnali trasversali nei territori.

In questo senso, la partnership non è né emergenza né scelta tattica: è condizione strutturale. Quando enti pubblici, società profit e organizzazioni del terzo settore fanno rete, non operano “fianco a fianco” come in parallelo, ma costruiscono un tessuto in cui ciascuno interviene dove ha forza e legittimità. E questo tessuto diventa più rispondente ai bisogni diffusi.

2. Valorizzare i piccoli: non solo “grandi firme”

Un altro aspetto non emerso, ma che ho cercato di segnalare nella mia chiosa finale, è che la conversazione sociale non può ridursi ai grandi attori. I piccoli e medi enti, le associazioni radicate nei quartieri e nei territori, sanno spesso intercettare bisogni più nascosti, tessere rapporti umani che sfuggono ai progetti “top-down”, tenere una presenza quotidiana — anche quando le risorse sono magre.

Ecco perché bisogna ascoltarli, includerli, metterli a sistema, non solo “coinvolgerli quando serve”. Creare spazi in cui le loro competenze (anche piccole, ma reali) siano riconosciute. Dare loro voce nelle alleanze strategiche. In questo modo, il cambiamento non sarà “vestito unico”, ma una sommatoria di intelligenze territoriali che dialogano con le grandi strategie.

3. Famiglie e comunità: protagoniste, non destinatari

Quel che mi colpisce più di tutto — e che rende viva la proposta — è che non si parla di “beneficiari” o “utenti” come entità passive, ma di famiglie, comunità, abitanti che hanno storie, risorse, aspirazioni. Il sistema collaborativo emerge se queste persone sono coinvolte attivamente: nei processi decisionali, nell’ideazione locale, nell’autogoverno di piccoli progetti.

Questo ribalta l’antropologia del welfare: non “fare per” ma “fare con”. Le famiglie non sono complessità da gestire, ma soggetti che, se accompagnati, possono contribuire: con idee, energie, legami sociali. È nella reciprocità che si crea cambiamento sostenibile, non in interventi unilaterali.

4. Le istituzioni pubbliche: codice etico e ruolo abilitante

Affiora con forza l’idea che le istituzioni pubbliche – comuni, enti regionali, amministrazioni – non possono limitarsi al ruolo di “finanziatore” o “regolatore”. Devono essere facilitatori, catalizzatori, architetti di infrastrutture sociali.

Ciò implica cambiamenti non banali: flessibilità normativa, capacità di assumere rischi, apertura di bandi che non premiano solo chi ha “numeri” ma anche chi ha potenzialità di innovazione, meccanismi di coprogettazione preventiva, criteri di valutazione che guardino al valore sociale complessivo, non esclusivamente ai costi.

In sintesi, le istituzioni devono indossare una “maglia etica” che faccia da collante: tutelare il bene comune, mettere in trasparenza regole che facilitino (non impicchino), stimolare fiducia fra attori. Senza questo, ogni accordo rischia di restare retorico.

5. Il profit che “fa bene”: responsabilità oltre il bilancio

Imprese e attori economici hanno un posto legittimo e attivo nel cambiamento. Ma con condizioni: non basta “donare” o “sponsorizzare”, serve che il profit sia parte della visione strategica, che incorpori finalità sociali nei propri modelli, che accetti vincoli di trasparenza e governance con il resto della rete.

Quando un’impresa capisce che la sua sostenibilità — anche reputazionale — è intrecciata al benessere del contesto sociale, allora mette risorse vere (finanziarie, umane, logistiche) al servizio del progetto condiviso. Non come filantropia occasionale, ma come investimento culturale e sistemico.

6. Le sfide – e come provare a superarle

Naturalmente, non è tutto rose e fiori. Alcuni ostacoli che emergono, impliciti ma palpabili:

  • Diffidenza e silos culturali: ciascun settore è abituato a operare per sé, con linguaggi e tempi diversi. Superarli richiede pazienza e magari un facilitatore terzo.

  • Squilibri di forza: le grandi organizzazioni o istituzioni possono schiacciare le voci più deboli. Servono meccanismi di “parità contrattuale” e rappresentanza autentica.

  • Tempi disparati: il non profit spesso lavora con ritmi lunghi, mentre imprese e politica vogliono risultati rapidi. Bisogna definire tempi condivisi e metriche intermedie di valore.

  • Rischio burocratico e valutazioni rigide: bandi troppo prescrittivi o criteri rigidi strangolano l’innovazione e il contributo di realtà minori.

Le chiavi per affrontare ciò sono: fiducia costruita, co-progettazione, reciproca leadership, misurazione del valore socialmente percepito oltre gli indicatori finanziari.

7. Cosa potremmo fare, concretamente

  • Promuovere spazi di dialogo reale (workshop, laboratori) dove profit, non profit, pubblica amministrazione e comunità possano conoscersi, sperimentare, progettare insieme su piccola scala, testando prototipi.

  • Creare “accordi fondanti” di governance nelle collaborazioni, dove ogni soggetto — anche il più piccolo — abbia “peso” e responsabilità certificata.

  • Riformare o influenzare bandi affinché includano criteri di partecipazione territoriale, innovazione sociale, partenariato (piccolo con grande) e valutazioni qualitative.

  • Mettere al centro le storie: raccogliere e raccontare come le famiglie e le comunità stiano già facendo trasformazione, affinché il modello non resti astratto.

  • Sperimentare modelli ibridi dove le imprese non solo finanziano, ma partecipano operativamente, con personale, competenze, mentoring.

(Devo la foto in apertura a Mauro Rossi, che ringrazio di cuore per la piacevole sorpresa, così come ringrazio le persone che hanno portato il loro contributo al tavolo: Riccardo Balducci Group Sustainability Director Sofidel; Giuliana Improta, Corporate Sustainability Manager WWF Italia; On. Giorgio Mulè, Vicepresidente Camera dei Deputati; Olivier Sannier, Head of High Value Donor Unit Fondazione Progetto Arca magistralmente sostituito da Marta Etrelli, senior partnership & corporate fundraiser; Elena Sarosiek, Head of Marketing Laundry Detergents Henkel; Simone Targetti, Chief Sustainability officer L’Oréal Italia; Roberto Vignola, Deputy General Manager CESVI; Nicola Zeni, Presidente e Fondatore Fondazione Italiana Diabete. Concludo un grazie anche a Rossella Sobrero, fondatrice del Salone e presidente di Koinetica, e a tutto il suo team.).

Al prossimo anno e a successive riflessioni.

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