Anna Fabbricotti torna a parlarci in questo post di major donor fundraising e di quali siano i requisiti essenziali per avviarlo. Nel farlo, ci racconta un po’ di vita vissuta e dell’esperienza fatta negli anni. Anna è docente del modulo dedicato ai grandi donatori, aziende e privati, del corso intensivo di raccolta fondi Startup Fundraising al via a fine settembre. Iscrizioni aperte.
Buona lettura.
Qualche anno fa, in una grande cooperativa con cui collaboravo per avviare un’attività di fundraising, ho incontrato un grande donatore “spontaneo”: era venuto anni prima a conoscere la struttura, conosciuta e importante per il territorio. Era stato accolto con gentilezza, il direttore generale della cooperativa lo aveva accompagnato a scoprire la struttura presentandogli operatori e volontari, raccontandone la storia e i bilanci, presentandogli tutti i documenti che chiedeva. Da allora, dona ogni anno cifre molto importanti e risponde alle richieste degli operatori in caso di necessità. Perché lo racconto? Perché loro, senza saperlo hanno fatto esattamente quello che è il lavoro di major fundraising: un lavoro di squadra, non un’attività solitaria.
Principio che vale per ogni ambito del fundraising: non si fa da soli. Il fundraising è un lavoro di squadra che deve investire tutta l’organizzazione, non un’azione solitaria di un sia pur bravo fundraiser, come molti, purtroppo, ancora pensano.
Soprattutto quando si parla di major, di grandi donatori, nella squadra ci devono essere anche loro, il board. Noi fundraiser cerchiamo, individuiamo, contattiamo, ci presentiamo al potenziale grande donatore. Gli presentiamo volontari, responsabili di struttura, i nostri operatori. Ma perché ci scelga deve incontrare chi decide, chi guida l’organizzazione, capirne la visione e gli obiettivi. Perché un grande donatore è come un “investitore”: “investe” nel miglioramento della qualità della vita, nel benessere dei nostri beneficiari, persone o luoghi che siano. Investe in noi, nella nostra capacità di lottare per quella causa, di cambiare le cose. E vuole, deve, essere certo di dove vanno a finire i suoi soldi. Deve conoscere punti di forza e punti di debolezza del nostro agire, capire i bisogni, ma anche quello che abbiamo fatto, i nostri valori, la nostra identità. Chi meglio di un presidente, di un consigliere del Consiglio Direttivo, un direttore generale, possono rappresentare tutto questo? Deve però rimanere un vero gioco di squadra: bisogna concordare le presentazioni, condividere storie, dati e numeri, perché non c’è nulla di peggio che raccontare storie diverse alla stessa persona. O suggerire problemi di comunicazione interna.
Il rapporto che si costruisce col nostro major è e resta sempre un lavoro di squadra, incontri regolari, una raccolta efficiente di dati e numeri, report puntuali per mostrare l’impatto del loro “investimento”, testimonianze dirette, eventi dedicati. Un lavoro che coinvolge tutti, board compreso. La carta vincente di quella grande cooperativa è stata ed è ancora oggi, la coesione, la condivisione interna: quel signore sconosciuto, che si è poi rivelato un grande donatore, lo hanno accolto tutti, hanno risposto tutti alle sue domande, si sono spalleggiati tra loro, mostrando quella che è un’unica, grande famiglia, impegnata ad aiutare i più fragili.
Come spiegarlo al board e alla nostra organizzazione? Il lavoro di major fundraiser è complesso e ha tecniche e regole precise: conoscerle non ci aiuta solo a capire come coinvolgere i nostri big, ma anche a costruire un buon gioco di squadra interno.
Le possiamo scoprire insieme al corso Startup Fundraising che parte tra poche settimane: avete ancora tempo per iscrivervi!
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STARTUP FUNDRAISING TORNA A SETTEMBRE, IN AULA O DA REMOTO.
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