Impariamo a valorizzare le nostre comunità. Qui poggiamo le basi da cui partire e far sì che le nostre organizzazioni crescano. Ce lo insegna Anna Fabbricotti, docente della Fundraising Academy, che in questo post riprende un tema caro, il capitale sociale, da cui poi verosimilmente provengono la maggior parte dei major donor. Buona lettura.
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Da molti anni ho in testa un’idea, meglio, una convinzione. Che porto avanti con determinazione. Riguarda il Capitale Sociale. Può sembrare una fissazione, ma è piuttosto qualcosa che si avvicina di più ad una visione. Vi spiego perché.
Il Capitale Sociale è quella rete di conoscenze, relazioni, amicizie, sostenitori, che una organizzazione ha intorno a sé. È quella base che crea solidità, da cui partire per crescere, e dove spesso si trovano veri tesori, rapporti che portano lontano e ci permettono di andare oltre. Il Capitale Sociale è lo strumento principe del fundraising, a patto che si impari a curarlo, gestirlo e capitalizzarlo con attenzione, e con gli strumenti giusti.
Quando si parla di Capitale Sociale, si parla sempre di territorio, come luogo di riferimento. Io preferisco parlare di “Comunità”. Perché “comunità” è qualsiasi cosa: persone che vivono sullo stesso territorio, che hanno la stessa origine, ma anche persone che condividono passioni, idee o interessi. E’ qualcosa di più ampio, più liquido del territorio. Che può andare molto oltre il territorio dove opero. Nella nostra comunità di riferimento costruiamo il nostro capitale sociale, ci garantiamo solidità. È nella comunità che dobbiamo imparare a muoverci e a valorizzare le conoscenze.
Dobbiamo imparare a identificare e costruire una nostra comunità di riferimento, fatta di interessi, passioni e idee comuni.
Ma io parlavo di visione. Bene, guardandolo da un’altra angolazione, il contributo che il nonprofit e il Terzo Settore, nella sua complessità, dà, e può dare, alle comunità è importante quanto il sostegno che da quella comunità può ricevere. Il Terzo Settore in questi anni, con i Comuni sempre più in affanno di risorse e una crisi economica ma soprattutto sociale senza paragoni, si sta imponendo non solo come supporto e presidio, spesso unico, delle aree di maggior crisi del welfare, ma come generatore di buone pratiche e spesso di crescita della cultura sociale e della cittadinanza attiva.
Un ruolo che va di pari passo con la reputazione, la crescita e la solidità dell’organizzazione stessa. Ed è qui che entra in gioco il fundraising. Che non ha solo il compito di “raccogliere fondi”, ma anche, appunto, sensibilizzare, far conoscere, raccontare. Creare la “cultura” del dono e della solidarietà. In una parola: coinvolgere. Per noi fundraiser la sfida è questa.
È di questi giorni il caso della Sea-Watch (leggi il post-analisi di Elena Zanella su Vita.it): la raccolta fondi lanciata a sostegno del Capitano, Carola Rackete, ha raggiunto in pochi giorni più di 300.000€. E continua a crescere. Una cifra enorme, anche di fronte a quello che si è figurato come una vera e propria emergenza, considerando che la Sea-Watch è un’organizzazione tedesca giovane e, fino ad oggi, poco conosciuta. Cosa è successo? Sicuramente l’emergenza ha spinto a donare; ma sono convinta che si sia creata, intorno al caso, anche una comunità di persone che, attraverso il sostegno alla Sea-Watch, ha voluto lanciare un messaggio. Una raccolta fondi che è stata quasi un atto “politico”.
Al di là del giudizio e delle parti di ciascuno, è anche questo il ruolo del fundraising in una organizzazione:
far conoscere l’organizzazione, i suoi valori, i principi, con l’obiettivo di trovare sostegno e donazioni, ma anche costruire intorno a noi comunità di persone che condividano quei valori, quello che siamo e quello che facciamo.
Persone pronte a sostenerci, ad aiutarci, e a partecipare alle nostre campagne e alle nostre attività. Il nostro vero Capitale Sociale.
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