Mi trovo ultimamente a riflettere su un fatto che fino a non molto tempo fa davo per scontato e di cui non sono più così certa.
Avevo infatti l’assoluta convinzione che la professione del fundraiser fosse tra quelle con maggiori opportunità di sviluppo:
la relazione tra professionisti e organizzazioni ha viziato il mio pensiero e convinta che il rapporto tra figure ed enti fosse di per sé sufficiente a garantire un assorbimento costante di nuove generazioni di fundraiser e, con esse, contribuisse alla crescita del Terzo settore nel suo complesso.
Bene, in parte ero in errore.
Quella del fundraiser è una delle professioni più articolate tra quelle praticate nel Terzo settore. Il solo fatto che cruciale sia la capacità, affatto scontata, di saper dare un valore economico a qualcosa che un valore economico non ha per natura e che tale valore sia riconosciuto da un altro che decide di sostenerlo, come, ad esempio, la salute di una persona, la rende una professione complessa e non alla portata di tutti, va detto.
Al tempo stesso,
quella del fundraiser è una professione di cui c’è bisogno (eccome se ce n’è bisogno!), e di cui ci sarà un bisogno crescente perché la raccolta fondi, sappiamo bene, è dinamica centrale nella Riforma in atto.
Ciononostante, quella del fundraiser è una figura che si fatica ancora a comprendere come decisiva nei percorsi di sostenibilità delle nostre organizzazioni. Così, al pari di quella del comunicatore, la si ritiene erroneamente un ruolo facilmente ricopribile da una figura volontaria di buona volontà, con un po’ di esperienza alle spalle, magari qualche relazione e con un un po’ di tempo a disposizione.
Quando ho cominciato a fare formazione in modo professionale e costante, mi è parso mano a mano più chiaro il quadro d’insieme. Il problema ritengo sia molto semplice:
il Terzo settore non è in grado di assorbire tutte le figure che arrivano dai percorsi formativi, universitari o meno. Non per cattiva volontà o impossibilità ma più semplicemente perché si fatica o si ignora l’opportunità derivante dall’investimento nel lungo periodo. Da qui, le forme contorte e discutibili legate alla retribuzione o forme scostanti e insoddisfacenti di occupazione.
Allo stesso tempo è dunque indubbio che:
il fundraising sia una professione che attira molti giovani. Tuttavia, l’errore gravissimo – a mio modo di vedere – sta nel gonfiare le aspettative di molti di loro.
C’è poi un altro aspetto che va considerato ed è legato alla tirannia del tempo:
Succede che i consigli direttivi, spesse volte, non abbiamo il tempo materiale per porsi obiettivi a lungo termine.
La soluzione è intuibile ma affatto semplice da applicare:
Nel fundraising, occorrerebbe decidere consapevolmente di provare ad accontentarsi di seminare durante il proprio mandato a beneficio di un ritorno fattivo che probabilmente arriverà in un momento successivo.
La formazione primaria dei dirigenti, di oggi e domani, e dei decisori in seno agli Ets diventa condizione necessaria affinché si possa finalmente affermare una cultura del fundraising così come molti di noi la auspicano nel suo ruolo cruciale di motore reale di cambiamento del Terzo settore in Italia.
Io mi sono personalmente impegnata a fare questo. Lo faccio su me stessa da sempre grazie anche al privilegio di aver trovato persone illuminate sul mio cammino. L’ho fatto con i miei testi, nei libri e sui blog. Lo faccio semplicemente parlandone e lo faccio a maggior ragione ora con il contributo dei colleghi che hanno aderito alla mia idea di insegnare il fundraising come meglio possono, mettendo la qualità prima di tutto.
Se si vuole arrivare da qualche parte, senza chiosa ma in modo determinato, occorre partire dalla cabina di regia, contribuendo a cambiare l’approccio strategico e la visione delle cose da parte di chi ha gli strumenti per farlo davvero.