Mi capita di riflettere, di quando in quando, sul perché abbia deciso di dedicarmi al fundraising. Succede, in particolare, quando mi trovo ad affrontare qualche impegno che mi dà maggiormente da pensare o quando vivo un anniversario. Come ora, a tre anni di distanza dall’aver intrapreso la libera professione.
Guardo a tre anni fa e vedo la mia vita cambiata radicalmente. In questi tre anni ho incrociato tante persone, alcune organizzazioni, tante aule. Ho abbandonato, per scelta o per necessità poco importa ora, la strada del fundraiser interno a beneficio della ricchezza esperienziale che tanti enti possono darmi, senza vincoli, senza essere mai totalmente dentro ed essere parte di qualcosa.
Quella dimensione a volte mi manca, soprattutto perché non ce la faccio a sostituire il “voi” al “noi” quando mi confronto con le mie organizzazioni. Ma il “noi” ben comprendo che non mi riguarda più, non totalmente almeno.
Poi il telefono suona e i km mi portano lontando dai miei pensieri e ogni volta dentro a qualcosa di nuovo. Bello, mi dico. Bellissimo, confermo quando i panorami si tingono di nuovi pensieri, di nuove persone, di nuove opportunità.
Alcuni rapporti sono terminati e non credo torneranno. Ti rendi conto fin troppo presto come gli interessi di ciascuno cambino velocemente quando a cambiare sono i contesti e le premesse sulle quali questi si fondano. E su questo, mi dico, temo non avrò mai una scorza sufficientemente dura da celarmi dietro una finta benevolenza. Ma è solo lavoro come qualcuno tempo fa mi ha ben insegnato. Non esistono riferimenti certi, solo contesti e opportunità.
Stay or leave, mi chiedo. Meglio stare o andare? Tre anni sono pochi ma nello stesso tempo sono un un percorso infinito, se ci penso. Un percorso affatto facile.
In questi anni, ho incrociato molte persone che mi hanno chiesto come poter fare a intraprendere una strada diversa nel fundraising. Alcune di loro sono semplicemente desiderose di cambiare contesti ma il timore di sbagliare, specie nel terzo settore in cui nella maggior parte dei casi la variabile umana e i sentimenti personali hanno la priorità sul business, le frena perché la necessità di garantirsi uno stipendio a fine mese è più forte di mille volontà. Ma a volte può diventare necessità: cambiano le teste et le voilà, da un momento all’altro il fundraising non è più una priorità: quindi basta investimenti nella raccolta fondi e basta interesse per la comunicazione. Davvero basta poco e non c’è più spazio per le tue idee. Per te.
Quello del fundraiser è un lavoro che non può prescindere dalla spinta emozionale. L’unico modo che veramente conosca per fare bene ciò che faccio e trasmettere il poco o tanto che so è attraverso la passione con cui accompagno ogni singolo momento della mia attività professionale.
C’è così solo un consiglio che mi sento di dare in questi casi:
se puoi, se davvero puoi intendo, non permettere all’apatia di avere la priorità sulla tua passione. Cambia e porta dietro tutta l’emozione che la nostra professione può regalarci. Solo così potrai fare bene per la tua organizzazione, per la professione, per te.
E ora avanti. Vesti l’abito che ti fa stare bene e ricorda: la passione ci muove, fundraiser!