Purtroppo, sono una fanatica della parola scritta. Nello scrivere, faccio in modo che i messaggi siano semplici e facilmente comprensibili in modo che al lettore passi e resti il più possibile. Nella scrittura alla raccolta fondi poi, questo è indispensabile:

la audience alla quale mi rivolgo è il più delle volte indefinita o, per meglio dire, variegata. Ciò mi obbliga a porre una particolare attenzione al testo affinché venga raccolto, elaborato e interpretato spero il più correttamente possibile.

Durante i miei studi di comunicazione, una delle materie che più mi hanno colpita e che, col tempo, ho approfondito, è stata la semiotica. Per la semiotica, la significazione, ovvero il lavoro di attribuzione di senso a un messaggio, è il lavoro che svolge il destinatario ed è un lavoro fondamentale e prioritario rispetto a quello svolto dal mittente. Il perché è semplice: se colui a cui sto scrivendo (o colui a cui parlo) non capisce ciò che sto dicendo, il mio sforzo diventa perfettamente inutile e la colpa sarà mia, non certamente del mio interlocutore. Diversamente, più adeguo stile, timbro, tono al ricevente, più quest’ultimo interpreterà correttamente quanto desidero comunicargli e risponderà efficacemente agli stimoli inviati.

Questo motivo mi ha spinto qualche anno fa, ad esempio, a usare il dialetto in una campagna istituzionale per la promozione del 5×1000 di un ente friulano. La scelta è stata dettata dal fatto che uno studio preventivo della popolazione locale ha evidenziato un cluster destinatario costituito da una maggioranza di persone di età anziana e nata sul posto. Questo piccolo accorgimento mi ha permesso di arrivare al cuore del lettore che si è sentito “facente parte di”, naturalmente.

Adeguare il modo al lettore viene prima della scelta dello strumento: a questo si adatta e non merita di essere svilito. Nel contesto portato ad esempio, la semplificazione, così come l’uso del dialetto (il dialetto è, di fatto, una lingua), significa tutt’altro che banalizzare.

Scrivere bene, in modo corretto, con attenzione alla punteggiatura, alle maiuscole, alla ricchezza dei termini, è rispetto per noi e per il nostro lettore.

Diversamente, la banalizzazione e l’uso improprio e improvviso dell’italiano a favore della velocità di scrittura non giova ed è controproducente perché rende il messaggio solo parzialmente comprensibile, con il rischio, oltre a essere inefficace, di venire frainteso.

All’indomani del “no” (suggerito) da parte dell’Accademia della Crusca ai quesiti della Corte di Cassazione sulla scrittura negli atti giudiziari della schwa e asterischi nel linguaggio giuridico (vai all’articolo su Wired), fatta eccezione per la declinazione al femminile delle professioni che, personalmente, aborro e che ritengo una forzatura nemmeno piacevole dal punto di vista del suono della nostra lingua (non mi si dica che “pubblica ministera” è “ascoltabile”, vi prego, ma capisco che probabilmente dovrò farmene una ragione), mi chiedo dove ci stiamo spingendo con le semplificazioni linguistiche imposte dall’uso dei social network e dagli strumenti di messaggistica.

Personalmente, ritengo che entrambi abbiano giocato un ruolo fondamentale nell’involuzione dell’uso appropriato della lingua e questo ha “sdoganato” anche nel nostro settore l’accettazione di una lingua scritta più fluida e tollerante, anche agli strafalcioni. Si scrive di tutto senza badare a un elemento fondamentale: la distintività di ciò che scriviamo e che va ineluttabilmente a impattare sull’immaginario del nostro lettore, oltre che sulla sua intenzione di dono (a ben vedere).

In gioco ci sono la comprensione del testo e l’efficacia nei risultati. Dobbiamo tenerne conto.

Possiamo non rassegnarci al progressivo abbrutimento dell’uso della nostra bella lingua e della sua reale efficacia? Da nostalgica, io ci provo a tenere la barra a dritta.

Per chi è come me, consiglio due libri che proprio non possono mancare: Le basi proprio della grammatica, di Manolo Trinci per Bompiani, e il Dizionario delle collocazioni, di Paola Tiberii per Feltrinelli. Per la scrittura creativa, La parola immaginata di Annamaria Testa, edito da Il Saggiatore, è un riferimento senza tempo.

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