Era il 2008, agosto se la memoria non mi inganna, quando mi iscrissi a Facebook. Ricordo l’emozione per l’accesso al mio primo social network e la possibilità di rintracciare vecchie compagnie, curiosare su come fossero diventati e che cosa stessero facendo i vecchi amici. L’opportunità di raccontarsi un pochino come mai prima. Insomma, per me è stata una folgorazione. Nonostante usassi piuttosto bene il pc, l’uso che ne facevo si fermava al lavoro di scrittura e alla grafica e non come strumento di socialità. A differenza di alcune mie amiche, ad esempio, non partecipavo a nessuna chat room conosciuta allora (sblocco un ricordo ai miei coetanei che probabilmente avranno memoria di “C6”, il social in veste web 1.0 di fine anni ’90).
Bene, ad oggi non posso fare a meno del web come la maggior parte della mia generazione, la X. Il mobile è un artefatto a tutti gli effetti: un prolungamento, cioè, della mia persona di cui faccio ampio e buon uso nonostante non sia una nativa digitale.
Ciononostante, il web, i social in particolare e l’uso che se ne fa, sono cambiati radicalmente da 15 anni fa e non in meglio. Questo, naturalmente, il mio pensiero. Riflettevo questa mattina scrollando il feed e ritrovandomi a premere la “x” in alto a destra per nascondere i contenuti adv ogni due post di aggiornamento da parte dei miei contatti. Mi accorgevo non solo di essere infastidita dall’insistenza ma, ancor prima, annoiata dall’assoluto disinteresse verso le sponsorizzate che mi apparivano sullo schermo. Talvolte anche le organiche mettono a dura prova la mia pazienza, ammetto. L’algoritmo ha cercato a lungo un mio possibile barlume di approvazione, scavando – non c’è dubbio – nelle mie aree di interesse ma senza grande successo, posso assicurare.
Dal punto di vista dei dati, la copertura organica dei principali social network è oggi ai minimi storici e il valore e l’efficacia della pubblicità su di essi sono piuttosto discutibili:
- Facebook, con 2,9 miliardi di utenti attivi mensili ha una copertura organica stimata al 4%.
- Instagram, con 1,4 miliardi di utenti attivi mensili ha una copertura organica stimata al 6%.
- LinkedIn, con 310 milioni di utenti attivi mensili ha una copertura organica stimata al 4%.
- Twitter, con 238 milioni di utenti attivi mensili ha una copertura organica stimata al 4%.
Anche il traffico dai social network sembra ridursi piano piano: non va dimenticato che sono sistemi chiusi, in fondo, e tutto ciò che è fuori è penalizzato.
Oltre a ciò, i social network sono diventati luoghi di scontro più che di confronto. Piazze virtuali che entrano prepotentemente nel salotto di casa, influenzando l’umore, quello buono, il più delle volte, specie in periodi difficili come questi, alimentata da un’informazione faziosa, ultimamente poco limpida e tutt’altro che libera (parere mio, naturalmente).
Occorre dunque interrogarsi sull’effettivo rendimento ottenuto dal loro uso. Ad esempio: se una volta bastava un buon contenuto per rendere efficace un post, il “content is the king” sembra diventato una chimera e non basta nemmeno più pagare per essere visti da una buona utenza (sia in termini di quantità che di qualità).
I social network sono luoghi sociali virtuali di primaria importanza per il nonprofit e lo resteranno probabilmente a lungo ma da professionisti del settore occorre chiedersi cosa resterà di questi canali da qui ai “prossimissimi” anni, visto il trend, e cosa fare subito per arginare questa costante e inarrestabile emorragia.
Cosa fare dunque?
Nel 2023, sono convinta che la cosa più intelligente e utile che un’organizzazione possa fare è investire su sé stessa.
Ecco qualche strategia da adottare subito:
- Il traffico va portato sui luoghi proprietari, sul sito internet in primis. I social network devono continuare a essere luoghi per intercettare e coltivare nuove utenze ma devono smettere di essere “I” luoghi degli enti: cosa succederebbe se un giorno vi chiudessero la vostra fanpage? Le vostre conversazioni semplicemente svanirebbero nel nulla e, con loro, le vostre speranze.
- Va bannato una volta per tutte il sito vetrina: non basta avere un dominio e una pagina con dei contenuti (a volte scarsi e di valore altrettanto scarso); un sito va reso vivo! Magari con un blog (attivo) o quanto meno con una sezione news (aggiornata) che permetta di migliorare la presenza sui motori di ricerca.
- Vanno migliorate, arricchite e aggiornate (costantemente) le pagine di progetto, spesso scarse e poco utili al donatore. Perché non usare i segmenti di dono per facilitare l’individuazione delle opportunità di adesione per ciascun singolo obiettivo, ad esempio?
- Va internalizzata la landing di dono. Comprendo che la stringa paypal è semplice e facilmente implementabile nel sito web ma l’esperienza di dono va iniziata e terminata all’interno del sito, quindi vestita di tutto punto con i colori e il calore dell’associazione. Per cominciare, ci sono plugin free, o quasi, del tutto rispettabili come Donorbox o FundraiseUp. C’è il sistema fornito da WordPress (WP Charitable) che con pochi dollari l’anno consente una personalizzazione ampia dei format. Poi ci sono sistemi più complessi che si integrano perfettamente ai database proposti dai diversi fornitori presenti sul mercato come NpSolutions, Metadonors, iRaiser, Kudu, MyDonor, Salesforce (per ricordare i più noti): c’è solo l’imbarazzo della scelta che deve ricadere sul grado di fiducia che i diversi fornitori sono in grado di generare e dalla capacità di rispondere alle reali esigenze del cliente.
- Un occhio di riguardo va dato all’e-mail marketing. Adoro l’utilizzo delle dem ma non dimentico un’e-mail: per quanto sia personalizzata, una dem sta alla circolare come un’e-mail sta alla lettera: il paragone è chiaro? Ad ogni modo, la comunicazione tramite posta elettronica va clusterizzata e customizzata: non va spedito tutto a tutti e sempre: target, qualità e frequenza devono essere tenuti ben presenti e studiati opportunamente.
- Creiamo un’immagine bella, di senso, unica, riconoscibile, nostra! La brand identity è regina.
- Affiancare luoghi diversi di confronto è necessario: Telegram, ad esempio, è in forte crescita e sta diventando anche molto versatile (i motivi li trovi elencati qui). A proposito, mi trovi a questo link. Iscriviti ora: il gruppo è ancora piccolo ma sta crescendo velocemente.
In ultimo, come mi piace dire, chiudo con un’autocitazione:
la buona causa (da sola) non basta più. Bisogna essere bravi, tecnicamente bravi!
E che sia un 2023 di brillante e audace fundraising!