Ha ancora senso parlare di CSR, oppure dovremmo essere più ambiziosi e trovare nuove formule (impact economy, stakeholder capitalism, shared value, etc.)? A porsi e porci questa domanda, Federico Mento, direttore di Ashoka Italia dai tavoli del Salone della CSR e dell’Innovazione Sociale appena concluso. Qui il suo pensiero esteso che condivido e riprenderò in un secondo momento. Cosa ne pensi? Lascia il tuo commento in fondo al post.

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Nel nostro strano Paese, abbiamo una sorprendente facilità nel dimenticare, smarrire le storie che ci hanno preceduto, abbracciando con entusiasmo ciò che ci appare ammantato di novità (meglio se formulato in inglese), per poi scoprire le radici profonde che ci riconnettono con il passato.

Penso, ad esempio, ai padri costituenti che, perimetrando nell’articolo 41 lo spazio della libertà di impresa, evidenziavano come questa non potesse svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

Oppure al pensiero, profondo e potente, di Adriano Olivetti sul ruolo dell’impresa, che deve produrre “libertà e bellezza perché saranno loro, libertà e bellezza, a dirci come essere felici”. La visione olivettiana si spinge ben oltre le pratiche di responsabilità sociale, arriva a prefigurare un nuovo assetto nella proprietà dei “mezzi di produzione” (!), socializzare senza statizzare, scriveva Olivetti, la fabbrica come costrutto “comunitario”, che a sua volta diviene pilastro di un nuovo modello di governance. Una prospettiva, profondamente umanistica, avanti anni luce, se messa a confronto con gran parte dei modelli che cercano goffamente di rappresentare il tentativo di spostare il settore privato dalla primazia del profitto al bene comune.

Qui c’è l’inquietudine: la sensazione di essere spesso di fronte ad approcci di responsabilità sociale, che perseguono in via esclusiva una finalità cosmetica, agiscono come un pannello coprente, alla caccia di “bollini” da esporre. Gli stakeholder sono lì “appesi” nelle matrici di materialità, però silenziati quasi si deve discutere di ciò che effettivamente conta.

La spinta normativa ha esercitato sul sistema privato una capacità di trascinamento quasi tellurica. Direttive, tassonomia, linee guida, hanno profondamente modificato nell’ultimo decennio il sistema delle regole collegato alla sostenibilità. Eppure, tutto ciò non è sufficiente, se il settore privato intende contribuire ad affrontare le grandi sfide del tempo nel quale viviamo, non bastano strumenti per il reporting, indicatori, matrici, framework.

Se vogliamo “abitare il cambiamento”, dobbiamo avere il coraggio di accogliere una visione autenticamente trasformativa, senza il timore di muoverci tra le contraddizioni, talvolta anche stridenti, dei meccanismi di generazione di valore. Esporsi al rischio di un confronto autentico con gli stakeholder, che non può più essere circoscritto, come spesso accade, alla survey consuetudinaria di fine anno, ma implica la disponibilità a cedere potere. Vuole dire riscrivere i principi che orientano oggi gli MBO delle funzioni direttive, affinché gli obiettivi di sostenibilità guidino davvero le scelte strategiche di un’azienda. E pensare che non sarà qualche albero piantato in occasione della giornata del volontariato aziendale a compensare l’impronta ambientale, ma agire tempestivamente sulla catena del valore, perché la crisi ambientale non aspetta. Essere trasparenti, mettere il sale sulla ferita quando qualcosa non ha funzionato come auspicavamo, perché altrimenti la reportistica perde di credibilità, limitandosi a descrivere gli impatti positivi.

Infine, investire nel cambiamento, ci sono oltre 150 corporate in Italia il cui fatturato supera 1 miliardo di euro, un aggregato di oltre 530 miliardi. La quota di risorse che il settore privato canalizza in responsabilità sociale è, da una parte, ancora inadeguata se paragonata ad altri contesti, dall’altra ancora poco strategica, parcellizzata, perdendosi in piccoli rivoli che hanno limitata capacità di generare impatti positivi.

E perché non pensare ad un prossimo salone il cui tema sia proprio “attraversare le contraddizioni”, sia quelle interne, le strategie aziendali sono ancora orientate de ROI, ROE, EBITDA ecc., sia quelle esterne, che coinvolgono la crescente domanda di sostenibilità da parte della società. Riconoscere, chiamare per nome queste contraddizioni, ci consente di creare uno spazio autentico di scambio, all’interno del quale costruire quelle risposte condivise di cui abbiamo dispersamente bisogno.

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