
Torno da una due giorni di intensa formazione agli Enti di Terzo settore sardi grazie all’invito dell’Associazione Culturale Performance e della Fondazione di Sardegna, che ringrazio. Ore intense, partecipate, generose. E, come spesso accade in aula, più di una volta – da più di un partecipante – è emerso un tema ricorrente: l’uso di immagini eccessive che conduce all’esasperazione del senso di colpa, quella più comunemente definita “pornografia del dolore”, poi strettamente legata a un altro tema che oggi proverò a trattare in questi pochi righi: quello dell’etica dell’urgenza.
Ovvero:
quello dell’enfasi continua sull’emergenza, la pressione costante nel sollecitare il dono, e l’invece necessaria fatica di comunicare con verità senza cedere alla scorciatoia dell’urgenza esasperata.
È un nodo che sento anch’io. Che vedo, che riconosco, che interrogo. Che mi chiedono. Che mi stimolano. Che cerco a volte, e con fatica, di arginare. E su questo ho sentito il bisogno di fermarmi e scrivere. Perché se tutto è urgente, cosa resta davvero importante?
Quando l’urgenza diventa un’abitudine (pericolosa)
C’è una parola che domina nei nostri copy, nei post, nelle DEM: “Subito”.
“Dona subito.”; “Firma adesso.”; “Agisci ora.”.
Funziona, certo. L’urgenza mobilita, richiama, spinge all’azione, certo, ma a quale costo?
L’urgenza ha senso quando è reale. Davvero reale. Quando il tempo è essenziale. Quando la risposta è questione di ore, di giorni. Ma quando diventa sistema comunicativo, e non eccezione, il suo potere si logora. Peggio: si svuota. E il nostro pubblico – stanco, bombardato, disilluso – si protegge.
Scorre oltre. Cancella la newsletter. Decide di non scegliere più.
La pressione non è coinvolgimento
Spingere sempre sull’urgenza significa chiedere al donatore una risposta reattiva, non riflessiva. Significa costruire una relazione fondata sulla pressione, non sulla fiducia. E la fiducia, nel fundraising, è tutto. Si costruisce con coerenza, concretezza, tempo.
Non con l’ansia.
Come fundraiser e comunicatori, il nostro compito non è generare tensione, ma trasmettere senso. Coinvolgere, non costringere. Far pensare, non rincorrere clic.
Quando tutto è urgente, niente lo è più
Pensiamoci. C’è un pericolo ancora più sottile. Quando ogni causa è presentata come catastrofica, il pubblico impara a non credere più a nessuna. E questo, nel nostro settore, è devastante.
Perché se il dolore diventa format, se l’urgenza è sempre gridata, allora la narrazione perde credibilità.
La persona rappresentata perde dignità. Il messaggio perde potere. E il valore reale che sta dietro a ciò che facciamo – le relazioni, i progetti, le visioni – rischia di diventare solo rumore di fondo. In altri termini, va ritrovata l’intenzionalità.
Non sto dicendo che l’urgenza vada eliminata. Ma va scelta. E soprattutto, va bilanciata con intenzionalità comunicativa. Parlare non per spingere, ma per ispirare. Raccontare non per commuovere a comando, ma per costruire un rapporto che duri.
L’urgenza vera tocca. Ma è la visione che tiene.
La comunicazione non è mai neutra
Scegliere di non gridare è un atto coraggioso. In un tempo che misura il valore in engagement, scegliere di raccontare la complessità è una scelta controcorrente. Eppure è una scelta necessaria, se vogliamo uscire dal circolo vizioso del “tutto e subito” e tornare a fare spazio al pensiero, alla relazione, alla verità delle cose.
Se tutto è urgente, niente lo è più.
Se tutto è straordinario, nulla è più credibile.
E se tutto è racconto, nulla è più ascolto.
Scegliere il quando, il come, il quanto comunicare è oggi un atto etico, ecco perché parlo di “etica dell’urgenza”. Un gesto che definisce chi siamo come enti, come professionisti, come esseri umani che si sono impegnati in qualcosa di veramente bello e con l’intenzione di cambiare il mondo da dentro. E questa, forse, è la vera urgenza che ci riguarda.