
Qualche giorno fa sono stata, come molti di voi, in visita al We Make Future – Web Marketing Festival di Bologna. L’ultima volta fu prima del Covid, a Rimini. Da allora sembrano passati secoli perché non solo questo evento è cresciuto in modo impressionante, ma anche, e soprattutto, è il digitale a essere cambiato. Di più: ha cambiato volto. Se fino ad allora era un compagno di viaggio, per certi versi ancora discreto, ora è diventato tutt’altro: un artefatto da cui non possiamo più prescindere, volente o nolente.
Ci sono tre affermazioni su tutte che desidero condividere qui per fermarle, e magari per provare a comprenderle al meglio. Affermazioni che conoscevo come dati di fatto perché note nei dialoghi comuni di chi nel settore ci bazzica, ma che solo da qualche giorno hanno preso, per così dire, una loro fisicità, facendomi comprendere quanto sia importante tenerne conto per fare bene il nostro lavoro, senza scadere nella trappola del facile condizionamento.
Perché è lì che si cade, ahimè.
Cominciamo con la prima:
l’algoritmo non ci conosce, ma ci addestra;
centrale nel dibattito tra Claudio Gagliardini, professionista e amico con cui ho avuto il piacere di collaborare, Chiara Boschetti, Giulia Barbieri e Harmamjot Kaur, tre professioniste fantastiche che hanno portato su quel palco il loro pensiero contribuendo a metterne in moto altri mille.
Ma cosa significa, per davvero?
L’algoritmo ci osserva. Ma non ci comprende.
L’algoritmo non ha coscienza, né scrupolo. E no, non ci conosce, ma è bravissimo nel leggere i nostri comportamenti, nel misurare quanto restiamo su un contenuto, nel riproporci ciò che ci fa sentire confermati. Nel farlo, ci “addestra”. Ebbene, sì. Ci addestra a restare, a reagire, a non spezzare mai il flusso. Lo fa con strategia, lo fa per alimentare attenzione. E attenzione vuol dire dati. E i dati, lo sappiamo, sono oro.
E da questo dobbiamo guardarci, perché attenzione significa anche distorsione. Perché se vedo solo ciò in cui già credo, se consumo solo contenuti che mi assomigliano, allora qualcosa si rompe. Il pensiero si fa pigro. La visione si restringe. E questo, giocoforza, impatta anche sulla comunicazione. E quella sociale, lo sappiamo, non fa eccezione: ne vediamo spesso i risultati, contenuti che si rincorrono, somigliandosi, fino a diventare un’eco autoreferenziale.
Chi comunica il sociale ha una responsabilità precisa: raccontare il reale senza manipolarlo, farsi capire senza banalizzare, coinvolgere senza invadere. Per farlo serve attenzione, metodo, rigore; e serve soprattutto esercitare un pensiero critico che, diciamocelo, è il primo a rischiare l’atrofia nella bulimia algoritmica.
L’algoritmo manipola, ma il nostro valore è altrove.
C’è poi un secondo concetto che desidero portare alla tua attenzione: semplice, ma dirompente, che esprime tutta la sua efficacia se lo riportiamo al più banale e familiare concetto di “pornografia del dolore”.
Non c’è novità dove lo storytelling è manipolazione.
Parole giuste, nette. Che dovrebbero essere tatuate sulle scrivanie di chiunque faccia comunicazione, dentro o fuori il non profit.
Perché no, non tutto si può raccontare. Non tutto si deve raccontare. Il dolore, l’urgenza, la fragilità: tutto ciò che ci rende umani ha bisogno di rispetto, non di format. E se la narrazione serve solo a produrre engagement, allora sì, abbiamo fallito.
Completiamo con il titolo: l’algoritmo non ha identità, ma noi sì.
Ed è qui che si chiude il cerchio…
Noi siamo umani. Abbiamo idee, contraddizioni, valori. Abbiamo la possibilità — e il dovere — di scegliere come raccontare ciò che facciamo. E perché lo facciamo. Non per piacere a tutti, ma per essere riconoscibili da chi ci somiglia davvero. Perché la fiducia non si costruisce con l’engagement. Si costruisce nel tempo. Con coerenza. Con autenticità.
Ecco, forse è questo il cuore della questione: recuperare l’intenzionalità nella comunicazione. Tornare a scegliere, davvero. Scegliere come e dove esserci. Con chi parlare. Cosa dire. E, soprattutto, cosa non dire.
Il digitale non è neutro. Ma può essere uno strumento potente. Se sappiamo chi siamo. Se non ci dimentichiamo di essere persone. Non profili. Non numeri.
Che fare, allora, come enti? Rinunciare ai social è impensabile e per molte organizzazioni questi rappresentano l’unica possibilità concreta di affacciarsi là fuori. Ma possiamo — e dobbiamo — viverli in modo consapevole. Come comunicatori e fundraiser, abbiamo una grande responsabilità: quella di non lasciare che siano gli algoritmi a decidere per noi. Perché anche se ci addestrano, possiamo ancora scegliere come e perché esserci. Non basta riempire spazi digitali: serve intenzione, serve visione, serve verità.
La differenza, oggi più che mai, non la fa chi grida più forte. La fa chi sa dire meglio chi è, perché c’è, e cosa ci sta a fare.
Tutto il resto è solo rumore.
(La foto in apertura è mia).