Un mese fa oggi, partivamo per gli Stati Uniti. 21 giorni per un sogno che si realizzava: 5 stati, 4000 km in auto, grandi spazi da vedere per una ragazza della mia generazione cresciuta con il mito dell’America, a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90; che è stata adolescente quando la tv offriva quel sogno e con quel sogno è diventata adulta.

New York con Manhattan, Brooklyn e il Central Park fino a scoprire dove è nato il mito del “Miracolo nella 34 Strada” e laddove si inerpicava King Kong. La Statua della Libertà ed Ellis Island. Poi Los Angeles e Santa Monica, tra Baywatch e Beverly Hills. Sulla Route 66 in direzione Las Vegas, attraverso i grandi parchi come il Grand Canyon che si accende all’alba, la Death Valley con i suoi 50 gradi, senza farsi mancare le tappe obbligate dagli Harrison di Affari di Famiglia e l’Area 51. Poi su verso San Francisco (che freddo e che vento, in quella città!), con tappa ai laghi, lo Yosemite National Park e alle sequoie giganti di Mariposa Grove, per poi approdare in visita ad Alcatraz, al Golden Gate e Lombard Street. Per finire, la Highway Pacifica con Santa Cruz, Pismo Beach e Santa Barbara prima di rientrare in Italia.

Il viaggio di una vita

Per ritrovare e posare su quei luoghi iconici, fare quelle esperienze che non avrei mai creduto, tutte in una volta perché non è detto che un’altra si possa ed è meglio riempirseli gli occhi e il cuore di sensazioni se è possibile, senza rimandare.

Abbiamo desiderato a lungo questo viaggio. Lo abbiamo voluto fare ora che nostro figlio non è troppo grande da voler passare le vacanze con gli amici, ma è abbastanza grande per ricordarlo per sempre.

Lo abbiamo fatto ora che siamo ancora giovani, il mio compagno ed io, da pedalare e camminare come dannati tutto il giorno su e giù, oltre che capaci di affrontare un fuso di 9 ore in grado di stordirci, ma non di abbatterci.

Ho amato l’Arizona sopra ogni cosa. Con il suo clima caldo e secco e i suoi paesaggi surreali e bellissimi. E i laghi e i boschi californiani e dello Utah con un profumo buonissimo di mirtilli e resina al vapore che non ho potuto fermare in uno scatto, ma che non so raccontare meglio di così. Se mi trovassi nella condizione di scegliere, le sceglierei come mete di vita al posto di New York. Il mio bisogno di tranquillità e pace si scontra prepotentemente con il rumore assordante e gli odori pungenti della grande metropoli. Milano, in fondo, non è poi tanto diversa.

Cosa mi è piaciuto. Cosa no. Cosa ancora non lo so

Dell’America, sul cui narcisismo non mi soffermo, ma a cui siamo legati e da cui siamo dipendenti, ecco, di quell’America che non si può non amare nei luoghi e negli spazi, mi è piaciuto il rigore e l’ordine. Nessuna deroga. Se alle 9 si chiude, si chiude. Stop e tutti fuori. In auto si va tutti alla stessa velocità, ad esempio. Per mia esperienza, difficile trovare un automobilista indisciplinato o leggermente alticcio e questo rende la guida un’esperienza semplice e rilassante, sebbene i km da fare siano molti perché le distanze, lì, sono enormi. Mi è parso di capire che sappiano far rispettare la legge, diversamente sono guai. Stessa cosa si dica per la pulizia. Nessuno sgarro. Non un mozzicone per terra, né una cartaccia. La pipì la si fa nei restroom, belli, puliti e diffusi, mica sul ciglio della strada o su un albero: sono guai, sennò. La roba degli altri è degli altri e non la si tocca, sennò sempre gli stessi guai poi ti toccano. Questo è quel che mi porto a casa per la mia piccolissima esperienza e mi piace.

Cosa non mi piace. Non mi piace l’aria condizionata tenuta a livelli indicibilmente bassi da creare notevole disagio per chi, come me, si prende il raffreddore con una banale corrente d’aria. Golfino appresso sempre, raccomando. Il cibo, buono ma sempre uguale, di fatto. Seppur stellato (l’ho provato), un cheesburger è pur sempre un cheesburger. Per chi poi ha tendenze vegetariane, il veggie burger è un suicidio per il palato. Magari la mia è stata solo sfortuna. Non mi piace non sapere cosa spendo, perché un conto è quanto c’è scritto sul cartellino del prezzo e un conto è quanto paghi in cassa: tra tasse e mance, fai presto a spendere molto più del previsto e la mancia, il cosiddetto “tip”, non è un optional.

Cosa non ho capito se mi piace o no: l’indifferenza. Bello, brutto, alto, basso, magro, in carne, su una gamba o su tre, ognuno si fa gli affari propri. E così, diversamente da qui, ho avuto il coraggio di far prendere aria ai miei 120 punti senza che nessuno li guardasse con raccapriccio (non passano inosservati, lo assicuro). Non so se è un bene o un male, ma l’indifferenza è un sentimento che ho trovato pressocché comune in tutti e cinque gli stati che ho attraversato, dai luoghi più affollati, al deserto. In qualche modo, ci siamo adeguati, noi tre, e per un breve lasso di tempo è stato bellissimo…

Vorrei concludere con una breve riflessione e spezzare una lancia a favore del Belpaese in cui viviamo. Sono stata via poco ma ho imparato una cosa importante: checché se ne dica, il sorriso e la gentilezza, come la solidarietà e la bellezza, noi italiani ce li abbiamo dentro (e pure fuori), e non abbiamo nulla da invidiare. Un po’ di spocchia dello straniero verso l’italiano c’è, non mi si dica il contrario, sebbene poi li vedi gli occhi che si illuminano quando dici loro da dove vieni: l’Italia, il Paese più bello del mondo! Non rincorriamo miti, perché non tutto il mondo è paese e sanno bene come ricordarcelo. L’amor proprio, ecco cosa ci manca. Vogliamoci semplicemente più bene di quanto ce ne vogliamo ora, che è un po’ poco, troppo poco. Praticamente nullo.

Sul Fundraising, per finire

Mi si perdonerà se sono uscita un po’ dal perimetro di interesse. Anche sul fundraising avrei qualcosa da dire: non sono le tecniche a mancarci, perché se ci fossero le risorse e ce lo permettessimo senza farci troppe menate, faremmo cose grandiose. La fantasia non ci manca e nemmeno l’intelligenza per metterle in pratica. A mancarci è la cultura del dono “dovuto”; dell’aspettarsi qualcosa in cambio “ad ogni modo e comunque”, come il tip a percentuale variabile, quello di cui ho parlato più sopra per intenderci, anche se stai alla cassa e non hai reso nessun servizio evidente se non quello di battere i tasti e presentare il conto. Perché la gentilezza non è inclusa nel prezzo, e non lasciano che tu lo capisca da te: te lo scrivono esplicitamente sullo scontrino affinché sia ben chiaro. Perché di comunicazione sociale e di messaggi senza troppi fronzoli, lì, è infarcita la tv regolarmente accesa in ogni locale.

Poca morale; sono i fatti a contare.

Da noi, no. Diciamo e non diciamo. Edulcorare comportamenti e linguaggio sembra diventato un principio imprescindibile, anche se poi si capisce che lo fai per quieto vivere. Siamo giusto giusto quel passo – o due – indietro in termini di educazione al dono in sé che ci fa ritenere il gesto più legato alla carità cristiana e alla pietà individuale, il che non è un male (of course), che un dovere sociale. Sta qui la sfida: far quel salto che ci permetta di connettere la prima con il secondo, trovando il nostro modo tutto unico, italiano, di contribuire al bene comune anche attraverso la richiesta di denaro senza sentirsi in difetto o senza, per questo, apparire cinici, il che ci porta, talvolta, a “ritoccare” benevolmente il nostro sé.

È l’autenticità, quella che non rischia di apparire ipocrita perché opportuna, il vero punto di svolta.

Ce la faremo, ma ci vorranno almeno un paio di generazioni, anche tre, di fundraiser a partire da oggi perché si raggiunga questo livello. Qui ci vuole un lavoro di cesello, proprio come quello che alcuni stanno facendo, con fatica e determinazione.

Ci rileggiamo tra qualche giorno e torneremo a parlare di sociale. Giusto il tempo di tornare in equilibrio con il flusso, riavvolgere il nastro e incasellare tutto affinché tutto sia pronto ai nastri. Quello che ci aspetta si preannuncia un anno importante e molto impegnativo. È scritto nelle stelle. E io ci voglio credere.

Ad maiora!

23 agosto 2024

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6 Comments

  1. silvia superbi 24 Agosto 2024 at 16:55 - Reply

    Bellissimo racconto e commenti finali sul fundraising!
    grazie Elena

    • Nonprofit Blog di Elena Zanella 2 Settembre 2024 at 23:22 - Reply

      Grazie, Silvia!

  2. Mattea Traversi 25 Agosto 2024 at 11:11 - Reply

    Grazie per aver condiviso con noi il tuo viaggio, mi è piaciuto molto leggerlo e immaginarlo. Condivido lo spunto di riflessione sul fundraising e sulla necessità di tirare fuori, sempre e comunque, la richiesta al dono. Ci si prova, ma bisogna insistere e non ci sono tecniche di fundraising che tengano, se poi non lo si fa in maniera netta e chiara. Buon rientro alla quotidianità, attendo la prossima newsletter 😊

    • Nonprofit Blog di Elena Zanella 2 Settembre 2024 at 23:22 - Reply

      Insistere sempre 🧘🏻, ahimè, anche se può diventare difficile. Grazie del tuo pensiero, Mattea

  3. Daniele Cavari 26 Agosto 2024 at 18:18 - Reply

    Grazie Elena, mi piace quello che scrivi e come lo scrivi

    Daniele

    • Nonprofit Blog di Elena Zanella 2 Settembre 2024 at 23:20 - Reply

      Grazie a te, Daniele. Commento molto apprezzato ☺️

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