L’efficacia di ogni attività è direttamente proporzionale a quello che la gente pensa di te. Si tratta di un’equazione molto semplice con cui anche il fundraising deve necessariamente fare i conti: la capacità di raccolta e la riuscita delle iniziative promosse, molto dipenderanno dal grado di notorietà, dalla coerenza esistente tra fatti e promesse, ovvero dalla credibilità, e dal percepito.

Il giudizio degli altri non è qualcosa a cui possiamo sottrarci o far finta che non esista, pensando che la buona causa sia sufficiente a salvaguardarci dalle brutte figure o, peggio, a giustificare azioni svolte con trascuratezza o superficialità.

La reputazione è un valore che va salvaguardato e a cui va riservata un’attenzione maniacale perché per costruirla ci vuole tempo, e molto, mentre per perderla ci vuole poco, molto poco.

Secondo “The State of Corporate Reputation in 2020: Everything Matters Now” (scarica il pdf), un’indagine condotta a inizio anno dalla società di pubbliche relazioni Weber Shandwick in partnership con KRC Research, i manager di tutto il mondo, in media, attribuiscono il 63% del valore di mercato dell’azienda alla reputazione. E, si legge in conclusione, la reputazione va riconosciuta quale driver primario per la presenza sul Mercato da cui dipenderanno in modo sostanziale – qualora ci fosse la necessità di ricordarlo – il suo valore economico e la sua capacità di influenza.

Si parla oggi di economia della reputazione, come ricordava qualche giorno fa Rossella Sobrero nell’evento online Prima che sia domani (se lo hai perso, puoi rivederlo qui):

Gli investitori preferiscono aziende con una solida reputazione e la comunicazione (o, meglio, le relazioni pubbliche) serve a rafforzare le relazioni con i destinatari.

Questo, aggiungo io, vale anche nelle scelte di dono.

Consiglio il libro di Michael Fertik, Reputation economy. Come ottimizzare il capitale delle nostre impronte digitali edito in Italia da Egea Editore qualche anno fa ma sempre molto attuale. Il presupposto a cui l’autore si rifa è molto semplice: ciascuno di noi è percepito all’esterno in base alla reputazione che ha costruito di sé. Tuttavia, se in passato l’anonimato era tutto sommato garantito, oggi i social media e il web in genere ci hanno resi vulnerabili e, di conseguenza, attaccabili. Ciò di cui non ci rendiamo conto è che siamo noi stessi gli artefici dei danni che ci autoprovochiamo per via delle tracce che quotidianamente, consapevoli o meno delle conseguenze, carichiamo sul web.

La reputazione va dunque preservata, misurata e comunicata agli stakeholder. Lavorare per costruire e mantenere la reputazione dovrebbe essere oggi in cima ai pensieri di chi governa, conduce o opera in azienda, profit o nonprofit senza alcuna differenza.

La differenza sta nei dettagli, nella buona gestione ordinaria, nel fare quello che si dice e nel farlo bene. Qui nasce la straordinarietà della distintività organizzativa. Poi il resto arriva, conseguenza premiante di un buon governo.

E ora dimmi: tu, come sei messo a reputazione?

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